SPACE IS A DOUBT
Alphaville – Um mundo de segurança un video di Antoni Muntadas
di Viviana Gravano

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Antoni Muntadas, Alphaville e outros, video 2011, courtesy dell’artista

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Una delle nuove frontiere dello spazio contemporaneo è la costruzione della paura, sia intesa come racconto, come finzione del costante stato di rischio come condizione reale, sia intesa come architettura e urbanistica che rispondono a questa costruzione del presunto rischio. Un medesimo sentimento di paura dell’invasione è divenuta la spina portante sia delle classi alte, economicamente molto agiate, di paesi cosiddetti  in “via di sviluppo”, sia la condizione molto più generalizzata di vita dell’Occidente europeo e diciamo americano. Il nemico, l’intruso, il barbaros, può essere dal marginalizzato, al povero allo straniero, all’immigrato che diventa nell’immaginario automaticamente il terrorista o il delinquente. Una fitta schiera di “utenti” contrappone a questo stato di paura costante un nuovo mondo, uno spazio assolutamente chiuso, blindato, in cui potersi difendere e vivere una vita sicura, priva di pericoli di “invasione”, ottenuta anche accettando una totale rinuncia alla libertà di movimento. Il fenomeno delle enclaves di abitanti benestanti è iniziato negli Stati Uniti già da oltre un trentennio per poi diffondersi massicciamente sia in Centro che in Sud America, ma anche in paesi africani coma ad esempio il Sud Africa. Queste città che arrivano ad essere totalmente autosufficienti, fino al punto ad esempio da poter avere al loro interno tutti i gradi di scuola fino alle facoltà universitarie comprese, non si limitano però ad essere dei conglomerati abitativi ma hanno sviluppato al loro interno un vero e proprio modello di vita che mira a autodefinire ciascun abitante come una “eccellenza” umana. Poter entrare a far parte di queste enclaves non è così semplice, e se il reddito molto elevato è senza dubbio un elemento determinante, non è certo l’unico. Queste città chiuse sono divenute quindi il rifugio tanto dell’alta borghesia quanto della nuova aristocrazia fatta di divi del cinema e della televisione, di sportivi famosi piuttosto che di personaggi dello star system. Nel 2006 ho trascorso 3 mesi in Brasile, in modo particolare a Sao Paulo e da lì ho visitato a Campinas uno tra i primi e più grandi insediamenti di Alphaville, una enorme multinazionale immobiliare che costruisce in questo paese cosiddetti condominios fesciados, cioè condomini chiusi: vere e proprie città contornate da mura in cui vivono decine di migliaia di persone. Alphaville è un progetto nato in Brasile diversi decenni fa e ancora in piena espansione, che ha iniziato a costruire vere e proprie mini-città, tutte recintate con un sistema di guardiania di tipo militare, con sistemi di allarme elettronici e una polizia interna privata, e una totale autosufficienza dal punto di vista dei servizi e delle infrastrutture. Basti pensare che molte Alphaville hanno strade chiuse, con accesso limitato ai soli abitanti, che li conducono all’aeroporto senza passare per la città normale. A Rio de Janeiro una strada chiusa connette Alphaville all’aeroporto senza passare mai per le strade pubbliche. In un’intervista realizzata da Teleglobo nel 2005 ad alcuni adolescenti nati e cresciuti in Alphaville a Rio de Janeiro veniva chiesto cosa pensassero della loro città, cioè Rio, e loro rispondevano di aver visitato New York o Londra, ma di non aver mai visto Rio. Queste isole metropolitane hanno sviluppato non solo un’estetica ben precisa che si ripete in ogni comprensorio variando a seconda del luogo dove è stato costruito ma rispettando alcune regole di base per tutti uguali, ma ha prodotto un vero e proprio modello di vita e culturale. Leggere non solo il territorio reale di queste città ma anche il modello comunicazionale attraverso il sito internet di Alphaville aiuta a capirne la natura e l’intento. In sostanza Alphaville è la città perfetta, senza conflitti, dove un’intera comunità costruita a misura umana autogestisce un’esistenza ideale totalmente isolata dal resto del mondo e addirittura isolata dalla stessa metropoli reale che la circonda. Nel mio viaggio a Campinas ho avuto occasione di intervistare uno dei dirigenti di questo comprensorio che ci ha raccontato che ci sono giovani che non sono mai usciti da Alphaville se non per brevissimi periodi di poche ore, che hanno consumato tutta la loro vita all’interno di questa enclave.

Antoni Muntadas ha scelto proprio una Alphaville brasiliana per raccontare uno degli aspetti di questa idea della costruzione della paura, e della sua conseguente “necessità” della difesa, che è in realtà un sistema politico di costruzione del consenso. Nel suo video Alphaville l’artista ha montato alcune scene del film omonimo di Jean Luc Godard con alcune riprese di una Alphaville reale in Brasile e alcune immagini del sito di pubblicità e vendita dell’immobiliare. Il film di Godard racconta di una sorta di città del futuro, in realtà molto simile alle attuali Alphaville, chiusa al suo interno, governata da leggi disumanizzanti nella quale arriva un uomo che è una sorta di “agente segreto” dei “mondi esterni”, cioè di paesi non ancora assuefatti alle regole autarchiche di  Alphaville. Il film del 1965, assolutamente avvenieristico sia per il tema che per la modalità di rappresentazione dello spazio, mostra una popolazione assolutamente sottomessa a una volontà superiore di omologazione, che per qualsiasi azione ripete una formula ossessiva senza senso “Grazie, io sto bene, prego”, che non conosce il concetto di libertà di opinione e che vive la violenza e la morte come delle necessità funzionali al sistema. Molto nota la scena in cui sul bordo di una piscina vengono uccisi dei “condannati” che non sono stati alle regole che, cadendo in acqua morti, vengono raccolti da una sorta di squadra di giovani nuotatori che sembrano come atleti del nuoto sincronizzato.

Muntadas apre il video mostrando un lungo piano sequenza dell’esterno del muro di una Alphaville reale, unita a una sequenza del film in cui l’agente riesce a portare via la ragazza co-protagonista da Alphaville e andando via le dice “Non ti girare a guardare”, come se rivedere quel luogo potesse suscitare in lei quella sorta di dipendenza che la tiene legata alla città. A queste due scene si alterna un tour virtuale in uno dei comprensori Alphaville in costruzione che si trovano nel sito. L’audio di fondo del video alterna la voce  metallica di una sorta di Grande Fratello di Alphaville di Godard con la voce calda e rassicurante dello speacker del sito dell’Alphaville brasiliana che racconta di una città felice che fa dimenticare paure e difficoltà e promette una vita perfetta, in armonia con tutto. Nel sito un’intera sezione è dedicata alla “seguranza”, cioè a tutte le forme di controllo e sorveglianza presenti in Alphaville. Negli ultimi decenni si è andati in molti paesi americani verso una medievalizzazione dello spazio che è tornato a costruire un dentro e un fuori: fortezze autosufficienti destinate solo ai ricchi che lasciano fuori, invisibile persino agli occhi di chi è “dentro”, un altro mondo fatto di poveri o di piccola borghesia, di violenza e di disagio. L’architettura delle barriere che separano questi due mondi, come negli antichi castelli, non sono invisibili né aleatorie, non denunciano una certa modestia, al contrario si esaltano, mostrano i muscoli in ogni loro aspetto. Sono mura alte, ben sorvegliate da torrette con la presenza di figure armate a cui si è potuto aggiungere la nuova rassicurante ombra dei sistemi tecnologici. La stessa ostentazione del confine serve a rassicurare chi è “dentro” e a dissuadere chi è fuori. Nel video di Muntadas una insistita e continua sequenza riporta la realtà dei luoghi associandola a quella del film: un lungo tratto di strada che mostra una muraglia appunto armata e di separazione. Il primo stacco del video è una scena girata da dentro una macchina che varca la soglia reale di Alphaville e per entrare, all’ingresso, usa un sistema di riconoscimento che analizza l’impronta digitale, ma l’ingresso della donna è anche sorvegliato a distanza dall’occhio vigile della guardia alla portarla. Muntadas a questa scena idilliaca e rassicurante ne fa seguire una in cui l’audio in un crescendo che richiama i film polizieschi degli anni quaranta e cinquanta proietta lo spettatore in quello stato di apprensione che lo porterà a isolarsi in Alphaville. Le sequenze filmate delle mura sia nelle riprese in Brasile sia nel film di Godard sono mandate sul monitor chiuse in dei rettangoli bassi e larghi, decentrati o in basso e in alto e contornati per il resto dello spazio del monitor dal nero. Questa decontestualizzazione, questo isolamento oltre a creare una percezione straniante aumenta il senso di soffocamento e chiusura. Nel film di Godard la stanza di albergo dove si trova la spia che viene dai Paesi Esterni ha dietro la parete su cui poggia il letto un bagno e tanto l’uomo, quanto le diverse donne di Alphaville che vi entrano, le cameriere/entreneuse e la guida ufficiale, usano il passaggio tra le due stanze in maniera assolutamente anomala. Passano da una stanza all’altra come se questa fosse un retroscena del film, come se in quello spazio invisibile si compisse sempre una trasformazione. Spesso il bagno nascosto è il luogo di azioni violente che però non vengono mostrate per intero ma come alluse attraverso spezzoni di corpi o di azioni. Lo spazio nel film di Godard vive di un medesimo senso dell’inadeguatezza, come se la sua chiusura e apertura possa essere un fattore di anomalia. Nella stessa maniera nel video di Muntadas il continuo crearsi di tagli nel fotogramma, la decontrazione costante delle inquadrature sembra creare una spazialità volutamente “inadeguata”, costretta a spostarsi in continuazione, soffocata dall’oblio possibile del nero. Una camera car riprende le strade tranquille e da cartolina della Alphaville brasiliana e insieme la ripresa del demo in 3D scaricabile dal sito della società immobiliare che mostra come saranno i diversi comprensori. Nelle città reale in Brasile sono previsti gli angoli per gli innamorati, il pontile dove dare il “primo bacio” o addirittura il punto dove sentir cantare gli uccellini in una sorta di perfetto boschetto costruito ad hoc. Alphaville è un modello di vita, è una prototipizzazione dell’esistenza programmata a tavolino che non serve solo a “proteggere” ma piuttosto a costruire un consenso determinato dall’assenza di conflitto. Un dato sconcertante per la società è che arrivati alla prima generazione oltre il 50 % di figli di abitanti scelgono di non vivere in Alphaville.

In un parallelo visuale che ricorda l’estetica dei videogame d’avventura, spesso fondati proprio su quest’idea dell’attacco del nemico esterno da battere e vincere con la violenza, Muntadas affianca la sequenza di un famoso inseguimento nel film di Godard dove le macchine slittano sulla strada ghiacciata e una sequenza ancora del video promozionale del sito di Alphaville in Brasile in cui un’auto molto schematizzata passa e percorre le vie del nuovo comprensorio, il tutto con l’audio di una musica incalzante con un ritmo crescente. Quando le auto nel film fanno marcia indietro la ripresa nel video 3D va all’indietro e un suono da videogioco si insinua nel tappeto sonoro proprio ad indicare la costruzione di uno spazio legato a una invenzione della paura funzionale, disegnata a tavolino, che invita alla violenza autoreferenziale.

Immediatamente dopo la sequenza mostra una scena del video promozionale ancora di Alphaville però girato con immagini reali dove la voce in brasiliano dice “ Alphaville è un mondo, di qualità, di sicurezza e di tranquillità…”. Nell’audio la voce fa una breve pausa dopo la parola mondo…per poi aggiungere le qualità che lo caratterizzano. La pausa è funzionale all’affermazione subliminale che Alphaville non è un luogo che è parte di un mondo, ma è “un mondo”, cioè uno spazio chiuso, autosufficiente, bastante a se stesso, come di fatto è nella realtà distorta di questi comprensori. Si aprono quindi più riquadri in cui simultaneamente continua a passare la vita ad Alphaville e in close up riprese con bocche sorridenti, anelli matrimoniali infilati al dito o scene di bimbi tra le braccia dei genitori. Mentre la voce elenca ancora la felicità di questo luogo la medesima voce si trasforma nella voce meccanica del deus ex machina del film di Godard che annuncia il nome della città e sul monitor appaiono simboli alfanumerici sia usati nel film per indicare la zonizzazione dello spazio urbano sia le aree di accesso della Alphaville brasiliana reale. La costruzione di uno spazio “sicuro” passa prima di tutto attraverso la costruzione di una distribuzione in aree stabilite che attribuisca ad ogni luogo una precisa destinazione d’uso congeniale al controllo. Non a caso le metropoli complesse hanno rapidamente abbandonato la nomenclatura delle vie a favore di una numerazione di più facile individuazione per polizia e mezzi di soccorso e simili. Nella maggior parte della letteratura di fantascienza sigle e codici definiscono spazi, azioni e tempi proprio perché l’iconizzazione aiuta una individuazione immediata e quindi un controllo maggiore.

Nel film di Godard tutti parlano dei “paesi esterni” in contrapposizione alla stessa Alphaville, e in un famoso colloquio con la ragazza che poi fuggirà con la spia lei confessa di non averli mai visti ma di averne memoria dai racconti del padre. Esattamente come dicevo poco fa rispetto alle testimonianze reali di alcuni adolescenti nati e cresciuti solo dentro Alphaville. Una bellissima immagine mostra nel video di Muntadas una ragazza con i capelli al vento, con un’aria felice, in leggero rallenty, che ha però il volto separato a metà da una barra nera che fa sì che la sua figura appaia su due schermi contigui. Subito a seguire la ragazza del film di Godard risponde sul suo essere sospesa tra la sua vita solo ad Alphaville e il suo immaginario sui “paesi esterni”. Una metafora visuale forte e commovente insieme che ricorda la condizione di intere generazioni costrette a crescere e a vivere il lacerante conflitto tra il conoscere solo un mondo chiuso, costruito da adulti ossessionati dalle loro paure, e la ricerca di una qualsiasi forma di differenza. La popolazione giovanile di Alphaville ha costanti problemi di droga, alcolismo e un tasso di suicidi adolescenziali in forte aumento: dati inquietanti per un mondo “perfetto”.

Nelle sequenze seguenti Muntadas monta le immagini delle esecuzioni davanti a una piscina nel film di Godard dove l’uomo dei Paesi Esterni chiede come mai vengono uccisi, condannati a morte, e una guardia gli risponde che si sono comportati in modo illogico, accanto a delle riprese che mostrano piscine lussuose, centri sportivi e un uomo prestante che nuota in un’acqua trasparente. Tre le due riprese corre la scritta “questa è la differenza tra vivere e risiedere”, tratta dalla pubblicità dell’immobiliare brasiliana che indica una precisa presa di posizione: vivere ad Alphaville vuol dire poter appartenere a un’élite, risiedere, cioè poter avere accesso e stare in un luogo che di per sé identifica uno status. Il responsabile dello sport di Campinas ci diceva che le Colf delle famiglie di Alphaville hanno accesso alla piscina per portare i bambini ma non hanno diritto a fare il bagno, ma li possono solo controllare da fuori, e che non possono gettarsi nemmeno in caso di evidente pericolo perché ci sono i bagnini addetti. Dunque sono presenti ma non residenti.

Un’ulteriore sezione del video di Muntadas mostra la polizia interna ad Alphaville che si veste in maniera molto militare, quasi come un guerriero pronto alla battaglia e poi esce in squadriglia per il corridoio, ancora in un video preso dal sito dell’immobiliare. In sequenza appare poi la scena del film di Godard in cui varie figure in un corridoio sono come intrappolate dallo spazio, restano attaccate alle pareti, non riescono a muoversi perchè sono calamitate dai margini, dai confini del passaggio con diverse porte da cui sembra non si riesca né ad entrare né ad uscire. Una scena estremamente violenta che racconta di uno spazio del controllo che condiziona il corpo al punto da renderlo incapace di muoversi. Subito dopo parte un audio e delle immagini sui sistemi di sicurezza a Alphaville in Brasile, che sono avanzatissimi, e sono in realtà il plus fondamentale del successo di queste città chiuse. Il paradosso è che nel citato documentario girato a Rio de Janeiro alla domanda se avevano voglia di uscire, i ragazzi rispondevano che non potevano perché chi aveva provato a fare l’università fuori era stato aggredito e spesso malmenato perché considerato “diverso”. I ragazzi parlavano di un vero e proprio razzismo verso i ragazzi di Alphaville che avevano tentato di uscire. In buona sostanza Alphaville vive una condizione di autoisolamento che ha costruito un reale pericolo al suo esterno creando un mito talmente negativo di queste città-stato che i suoi abitanti sono visti come alieni e come estranei al mondo reale. Il responsabile della comunicazione di Alphaville a Campinas ci disse che lui si sentiva brasiliano molto più di chi stava fuori ma che prima di tutto era un cittadino di Alphaville. Il processo di identificazione è l’elemento essenziale per la costruzione del controllo: sentendosi ben presto estranei nel mondo reale dato il lungo isolamento i “cittadini” di Alphaville si identificano con la loro stessa prigione considerandola l’unico luogo che li possa accogliere, accettare e identificare, ma a patto di accettarne la regola stessa dell’autoreclusione.

Il video di Muntadas si chiude con una sorta di titolo di coda che recita “ Alphaville il sogno, il tempo, il successo” e una musica hollywoodiana enfatica. La fine della grande messa in scena non solo del film ma della vita stessa in Alphaville.