DESIRE
Phallusies, la Fantastica di Simon Fujiwara
di Silvia Calvarese
Fu in quel tempo che intitolai pomposamente un modesto scartafaccio Quaderno di Fantastica,
prendendovi nota non delle storie che raccontavo,
ma del modo come nascevano, dei trucchi che scoprivo, o credevo di scoprire,
per mettere in movimento parole e immagini1.

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C’è un lavoro che parla di una storia surreale, di un oggetto misterioso scomparso, di quattro testimoni. Non è un libro e neanche un film. Per il momento è solo una storia vera, rappresentata nell’opera di Simon Fujiwara (Londra, 1982). E non è un caso che a tirarla fuori da sotto cumuli di sabbia sia proprio lui, lui che è un artista nel raccontare storie. Il più delle volte queste nascono dalla sua autobiografia, fonte continua d’ispirazione, a cui aggiunge una buona dose di Fantastica, citando Rodari, anzi delle “ipotesi fantastiche”. Al suo passato capita spesso che Simon Fujiwara aggiunga quel Che cosa succederebbe se…? capace di moltiplicare situazioni e avvenimenti possibili all’infinito. È un dono il suo, di (ri)scrivere storie, di manipolare la Storia, gli affetti e la memoria collettiva, attorno ad aneddoti, che arricchiscono i fatti reali e vengono a costituire una nuova realtà. Sempre, come l’artista afferma in un’intervista, dopo aver presentato i suoi lavori c’è qualcuno che gli chiede quali parti di essi siano vere e quali finzione. Tutto è reale, ci dice Fujiwara, poiché esso forma una realtà. E allo stesso tempo ogni cosa, compresa la realtà stessa, è finzione, è una costruzione.

Ma c’è una storia che con la sua autobiografia non c’entra nulla, o forse poco. È un avvenimento accaduto in un luogo non meglio precisato, in un punto sconosciuto tra le dune sabbiose del deserto di un lontano paese mediorientale. È una storia che mescola archeologia, desiderio, potere, censura. Durante gli scavi per la costruzione di un nuovo museo nel deserto arabo, venne alla luce un antico, gigantesco e singolare reperto archeologico: un enorme masso, dalla forma allungata, fallica. Inutile dirlo, esso creò subito imbarazzo, difficoltà, e dovette immediatamente scomparire. Nello spazio sociale c’è solo un luogo dove la sessualità viene riconosciuta e accettata, ed è la casa; negli altri contesti deve sparire. Ed è proprio quello che successe. Questa scoperta fu riseppellita nella memoria collettiva, furono nascoste le tracce, non venne fotografato nulla. Lo stesso reperto scomparve, alcuni dicono fu distrutto, altri che partì per una destinazione sconosciuta.

«Cacciato, rifiutato e ridotto al silenzio ad un tempo. Non solo non esiste, ma non deve esistere, e lo si farà scomparire alla prima manifestazione – atti o parole. […] Questo sarebbe il carattere specifico della repressione, e quel che la distingue dai divieti […] funziona certo come condanna alla disparizione, ma anche come ingiunzione di silenzio, affermazione d’inesistenza, e dunque constatazione che di tutto ciò non c’’è niente da dire, né da vedere, né da sapere»2.

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Phallusies (An Arabian Mystery), 2010, Simon Fujiwara. Mixed Media, dimensions variable.
All photographs courtesy of Gio Marconi

Già, niente da dire, da vedere o da sapere. È una bugia collettiva, un tacito accordo sotto la protezione del moralismo corrente. La censura esercitata dal modello culturale interviene nella Storia sempre al punto giusto. Tutte le opere di Simon Fujiwara indagano questi temi: sessualità, desiderio, potere politico, sociale. Parlare di sessualità per l’artista è anche un pretesto, per svelare i meccanismi che regolano la società contemporanea, per aprirne i cassetti, e svelare di essi tutto il contenuto, soprattutto quello nascosto sotto strati di accettabilità. Eppure, nella logica dei meccanismi a catena della censura, c’è sempre un anello che ad un certo punto si sfalda. In questo caso è la parola che irrompe, che sostituisce l’oggetto del discorso. Una parola, un discorso, capace di disseppellire campi della memoria giacenti sotto chilometri di sabbia e polvere, una parola che agisce. Sono quattro persone in questa storia a parlare; quattro testimoni di qualcosa che non c’è più, se non nei loro ricordi e nei loro racconti. Questi uomini inglesi lavorarono nel cantiere del ritrovamento, nel 1999 e deposero sul reperto, ma le loro versioni furono discordanti: uno di loro disse che la scultura aveva i testicoli, un altro che era solo una colonna di pietra, alcuni che era lunga tre metri, altri sei.

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Phallusies (An Arabian Mystery), 2010, Simon Fujiwara. Mixed Media, dimensions variable.
All photographs courtesy of Gio Marconi

La verità è nascosta tra le pieghe di questi discorsi ed è spesso colorata da particolari inesistenti o suggestioni individuali. Sembra quasi che le parole siano state scelte per “decenza” e buona educazione, quasi a voler rendere i discorsi innocenti, innocui.

Eppur per quanto innocente, quando viene gettata lì a rompere un silenzio costruito punto per punto, la parola funzionacome un sasso tirato in uno stagno; questo provoca onde concentriche che allargandosi sulla superficie, coinvolgono nel loro moto, con diversi effetti, le cose che hanno intorno. E queste, che riposavano in pace, sono obbligate così a reagire, a farsi trascinare nel vortice e ad entrare in rapporto tra loro. Toccando il fondo poi, il sasso smuove la sabbia, urta cose che giacevano dimenticate e ora, da questa azione, dissepolte.

Non diversamente una parola […] produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere.

Lo stesso Simon Fujiwara interviene in questa storia, aggiungendo del suo, collegando fatti e parole, costruendo e rappresentando la scena, accumulando materiale, presentandoci a modo suo ciò che è accaduto.

Phallusies (An Arabian Mystery), 2010, Simon Fujiwara. Mixed Media, dimensions variable.
All photographs courtesy of Gio Marconi

Al centro di una stanza c’è un tavolo, sul tavolo una tazza con un manico a forma di fallo, una lattina, una borraccia, delle cartine; le sedie spostate, lasciate così da qualcuno che si è appena alzato, su una di esse un giubbotto appeso. Alle pareti delle bacheche, sulle bacheche foto varie, appunti di viaggio, memorie dello scavo, memorie di vita. Qualcuno ha appena lasciato la stanza, richiamato forse dal lavoro che l’attende, nella camera a fianco, dove una grande scrivania condivide quattro racconti differenti sulla stessa storia. Sono le ricostruzioni del ritrovamento fatte dai quattro testimoni, con disegni, fotografie, reperti. E ancora, mensole piene di materiale da lavoro, sacchi di cemento, sabbia dappertutto. Da una stanza provengono delle voci, è un racconto collettivo. Sullo schermo i testimoni raccontano, ognuno a suo modo, la vicenda. Infine il famoso reperto dalla forma fallica, che possiamo guardare così con i nostri occhi, aggiungendo alla storia del nostro, le nostre suggestioni. Potremmo trovarci d’accordo con uno dei testimoni, pensando di aver di fronte la verità; o capire che il tutto è una costruzione, una storia nella storia, e andarcene convinti di aver partecipato ad una farsa. Non è la verità che conta, ma tutti i discorsi che i diversi attori hanno messo in gioco e i discorsi che si sono attivati nel momento dell’esperienza. La forza del lavoro di Simon Fujiwara si trova in questo, nell’aver costruito una situazione, un microambiente temporaneo, uno spazio per il dialogo, dando il via ad un gioco di avvenimenti imprevedibile. È un viaggio sul posto, che apre innumerevoli immaginari e significati, dentro e oltre i confini della nostra esperienza. C’è un desiderio in tutto questo, e non è quello di verità. È il desiderio di poter dire e di non dover nascondere; è una volontà di sapere che ogni storia può essere raccontata, indipendentemente dal soggetto o, in questo caso, dall’oggetto del discorso.

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1 Rodari G., Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Piccola Biblioteca Enaudi, Torino 1973, p. 4.
2 Foucault M., La volontà di sapere, Feltrinelli Editore, Milano 1978, p. 10.
3 Rodari G., Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Piccola Biblioteca Enaudi, Torino 1973, p. 7.
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Simon Fujiwara è nato a Londra, nel 1982. Vive e lavora tra Berlino e Londra.
Nel 2011 è stato insignito del South Bank Arts Awards, come artista emergente. E’ stato inoltre insignito nel 2010 del Baloise Art Prize, in occasione di Art Basel 41 e del Cartier Award per Frieze Art Fair.
Tra le mostre personali: Proyectos Monclova, Mexico City (in corso), Julia Stoschek Collection, Düsseldorf; MAK Center for Contemporary Art, Los Angeles; Neue Alte Brücke, Frankfurt; Architecture Foundation, London.
Le sue prossime mostre personali saranno presentate presso: Baltimore Contemporary Museum, Baltimore (2011); Hamburger Kunsthalle, Hamburg (2011); Tate St. Ives, St. Ives (2012); CCA Wattis Institute, San Francisco (2012).
Tra le mostre collettive: Singapore Biennale, Singapore; 29th Sao Paulo Biennale, Sao Paulo; Castello di Rivoli, Torino; Kunsthalle Göteborg, Göteborg; MUSAC, Leon; GAM, Torino; Temporärer Kunsthalle, Berlin; 53rd Venice Biennale (“The Collectors”, Padiglione dei Paesi Nordici, con Elmgreen & Dragset), Venezia; Galleria Massimo de Carlo, Milano; “This is Not Vauxhall”, a cura di Elmgreen & Dragset, 51 Devon Street, London; Neue Alte Brücke, Frankfurt. Fujiwara parteciperà a Performa 2011, New York.