ARTE E POLITICA
Maybe in Sarajevo
di Viviana Gravano e intervista di Marika Rizzo

INTERVISTA A GEA CASOLARO DI MARIKA RIZZO

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FORSE

di Viviana Gravano

1977. Metto per la prima volta piede in Jugoslavia. Umag Katoro, come in Italia, passo il confine su un vecchio pullman e nemmeno me ne accorgo. L’autista racconta una storia sul fatto che la terra è molto rossa, legata al sangue non ricordo più di chi. Mio zio:lo vedo per la prima volta. Esule in ogni patria. Ci vediamo in Jugoslavia perché per lui, ma molti anni è la sua terra di confine, la sua zona grigia, oltre cui non può andare. L’abbraccio con mia madre. Mi solleva da terra. Bojena, sua moglie, ride sempre, viene da Brno. Per me la Jugoslavia è già terra di confine, di tutti i confini. Farmacia si dice alla greca “apoteke”, almeno così mi ricordo. Non riesco a capire la differenza dalla campagna fuori Trieste che abbiamo appena lasciato, però qui mio zio può camminare, lì no. Gli chiedo perché. Lui mi dice per la prima volta quella parola strana per me che allora avevo sedici anni: “non schierata”. Lui ride spesso, ha dei denti bianchi bellissimi, dice che in Cecoslovacchia glieli curano bene. Una sera arrivano delle persone al ristorante dove siamo, croati, e suonano musica che mi fa finalmente sentire straniera: ho passato il confine non sono più in Italia. Confino/Campo di concentramento/Esilio: che vuole dire per mio zio, patria, dove si sente in patria? E lui mi dice nel suo paese, ai Castelli, vicino a Roma, a Genzano, dove non torna da quando aveva 17 anni. Non parla italiano, parla genzanese con un leggero accento russo, fa ridere. Da quel giorno ci siamo scritti spesso: mi ha sempre sorpreso sentire come si può vivere quasi per sempre altrove e sentirsi sempre esuli, poi poter ritornare e essere esuli in patria. Appartenenza, non appartenenza? Qui in Jugoslavia stiamo bene, è territorio neutrale, noi non siamo a casa, lui non è a casa: sembra che questo paese sia stato costruito apposta per questo.

1981, agosto Niema problema: siamo in nave. Andiamo a Bar, buffo: come Bari senza una lettera. In nave tutti ci chiedono jeans. Guerrino conosce Roberta e da allora non si sono più lasciati. Il Montenegro: vacche molto magre, fanno impressione, terra brulla, spiaggia con ciottoli colorati e bianchi, mare cristallino. La sera in albergo c’è una grande discoteca si controlla chi entra e chi esce. Josè Manuel Delgado, viene da Capo Verde, Africa, studia a Belgrado, mi canta: “Eu choreo quando se aila de casa in fronte do mundo, eu choreu … ” Suo padre è portoghese. Mi vuole sposare: forse è un po’ presto. Mi sa dire solo I love you e, sotto un albero vicino Bar mi mostra su una carta Capo Verde. Uno studente di Sarajevo in vacanza, fa danza: due occhi neri esplosivi. Un giovane biondo, ha sempre la stessa maglietta che ogni notte rilava e rimette il giorno dopo, dopo una settimana è diventata minuscola. È kossovaro, di madre macedone. Il camionista che ci dà un passaggio fino a Sveti Stefan guida come un cane, ci fa vedere dove dorme, una branda incastrata dietro i sedili, tiene sul vetro un San Cristoforo e mentre ci parla, e non capiamo una parola, lo bacia più volte frettolosamente. Ulcinj: io la Turchia la immagino così. Un mercato pazzesco. Donne con pantaloni a righe colorate, larghi in alto e stretti in fondo, portano galline vive legate per i piedi: volano piume ovunque. La nostra guida contratta per noi, o forse per loro. Un ragazzo mi dà delle scarpe di cuoio intrecciato e io gli do i miei jeans tagliati, sono rotti e sporchi ma lui li vuole, torno in pullman con il solo costume. C’è un odore acuto, non so bene se è puzza. Il confine con l’Albania è lì ad un passo ma non lo passiamo: io lo propongo, ma mi dicono che ci sono problemi per noi. Tutti mi parlano in italiano, qui si guardano i telegiornali italiani. Mi hanno detto che quella piazza del mercato ora non c’è più. Dubrovnik: camminare sul pavimento di marmo di un magnifico salone all’aperto. Pezzi di Venezia, pezzi di Oriente. Mi addormento per la strada, buttata a terra su una fontana e la gente mi lascia dei soldi. Le mura sul mare. Mezza Europa e mezza non so io nemmeno che. Una comitiva di cinesi, incurante dello strepitoso impatto visivo, mi attraversa la strada davanti. Tanto tempo dopo, ho saputo che la gente ha numerato le pietre, una per una, dopo il bombardamento delle mura e le ha rimontate tutte in un tempo record durante quest’ultima maledetta guerra. Se penso alle bombe che spezzano i lastroni di marmo sento un dolore fisico: come un osso che si spezza, una frattura netta e perfetta, senza schegge. Turista in uno dei salotti bene dell’Adriatico: allora mi sembrava un posto inviolabile. Tutta la Jugoslavia mi sembrava inviolabile: costruita perché potesse essere una grande linea di confine, un enorme territorio apparentemente neutro, dove stare o passare, una grande chiusura lampo tra Oriente e Occidente: ora so che era una sensazione idilliaca della mia fantasia ventenne che cercava rifugio dopo la brutta fine di una storia d’amore. Lì per me si conciliavano tutti gli opposti, lì convivevano tutte le differenze, difficile dire se era vero o se io risanavo semplicemente le mie lacerazioni.

1993, agosto e ottobre. Dragonia, Capodistria/Koper. Qui la guerra è passata per un attimo e ora è vicina ma anche lontana. Sono a casa di Aurora. Prendiamo la barchetta e andiamo a Savudrija in Croazia. Un mare d’incanto, scogli, datteri di mare, granchi che si riproducono in piramidi. Giriamo la curva dell’insenatura e, a testa in giù, infilati tra acqua e scogliera una serie di cingolati, buttati a mare. Meglio ai pesci che al nemico, prima di ritirarsi si buttano a mare. Sono rimasti lì. plcnikun’imbecille a venire a fare la spesa qua, mi sembra di togliere il poco che c’è. Tre ragazze hanno una trattoria sul mare: seppie alla griglia, spaghetti con datteri di mare, birra. Alla fine siamo incerti: regaliamo loro dei soldi? Forse è meglio di sì. Il giorno di Ferragosto in tutta la spiaggia siamo in venti, non di più. Qui tutto sembra orribilmente normale, siamo a circa 35 km dal fronte. Mi sento veramente un po’ idiota. Un uomo passa il confine tra Slovenja e Croazia, proprio a Dragonia, il confine si vede dalle finestre della casa dove sono ospite, le guardie di frontiera sonnecchiano sotto il sole che brucia. Durante una passeggiata con il padre di Aurora, un gruppo di uomini vestiti tutti di nero, mi sembra militari, sono Ustasha mi dicono poi, vengono in su con una macchina, in senso vietato, e il padre di Aurora fa marcia indietro per farli passare. Savudrija come la Puglia, Porto Rose come Rimini, Capo d’lstria un po’ Italia e un po’ Oriente, Lubijana sospesa tra Austria, Turchia e Italia. Plečnik rifà Vienna a Ljubijana, il mercato ospita i banchetti dei russi, i ragazzi cercano scarpe Nike e la gente fa feste dove ricicla piatti e bicchieri di carta. Sono invitata a un Albicocca Party, non c’è luce per le scale di notte e il bagno è nelle scale. La Galleria d’Arte Contemporanea produce opere di giovani. La Siovenja è una persona con la testa al freddo in Austria e i piedi bollenti, pelle a pelle con la Croazia. Attraversarla tutta in verticale: è come attraversare il mondo da est a ovest. Marco mi dice che va in vacanza su un’isola di fronte a Dubrovnik, lì non c’è guerra, forse. Vado ad una mostra di giovani in un locale dove si beve. La gente beve molto. Incontro un ragazzo di Sarajevo, è scappato in un attimo con sua moglie e suo figlio, in una mattina: ha con sé i suoi, i jeans che porta e una maglia. Una mattina gli hanno detto va ora perché altrimenti ti ammazzano, lavorava alla televisione di Sarajevo. Veramente bello: occhi molto neri, capelli corvini, magro. Un progressista. Mi guarda mentre beviamo non so più quale birra e gridando perché la musica è troppo forte mi dice: “Se potessi io sparerei in testa anche ad un bambino di sei anni se fosse Serbo. Loro hanno fatto questo davanti a me, io ero nascosto e ho visto tutto. È così e non cambierà”. Sono tramortita, lo guardo e mi sento di nuovo un’idiota: turista in un paese in pace ma pur sempre in guerra. La macchina di Renate passa accanto ai campi profughi a Salvore, a terra ci sono anche palette e secchielli per la sabbia per i bambini. A Ljubijana vado all’Accademia di Belle Arti, non so chi penso di dover incontrare, credo nessuno. Sfogo così il mio inutile senso di colpa occidentale. Ovunque manifesti e Ta-Zi Bao sulla guerra ma nemmeno uno studente, per forza non c’è ancora lezione, sono io fuori tempo. Hanno appena aperto Benetton. Imparo a dire buongiorno e quanto costa, ma poi non capisco la risposta. La sera il centro città è tutto pedonale: si aprono tavoli dei bar ovunque, per terra tappeti di finta erba: la gente parla, parla molto, come se il parlare tenesse lontano qualcosa d’altro, però non so dire che. Ripassiamo il confine. Che spettacolo ridicolo: tutti i carri armati italiani schierati sulla frontiera. Proprio oggi c’è un aggravamento della situazione diplomatica con l’Italia. Chiamo mia madre per dirle che va tutto bene e mi sento ancora più idiota. Un po’ di mesi dopo una mia studentessa bosniaca dell’Accademia di Viterbo, mi regala Un ponte sul fiume Drina, lo leggo e forse capisco più cose. La Jugoslavia non è più un posto adatto per andare a risanare le proprie ferite d’amore, questo è certo.

1998, settembre. Gea parte per Sarajevo con una delegazione ufficiale del Comune di Roma per la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo. Molto emozionata, e io con lei. Dopo anni ritorno in quella terra attraverso i suoi occhi e le affido i miei sogni e le mie aspettative di allora. Quando torna sono cambiate delle cose in lei, sembra banale ma è così. La rivista “Aperture” fa una conferenza su “l’esperienza”, sulla possibilità o meno di raccontare ciò che si vive. Gea interviene e dice che non si può raccontare la sua esperienza di Sarajevo, così come la gente di Sarajevo non può raccontare la sua esperienza, o almeno non può essere la stessa cosa. Poi ci racconta che i Serbi hanno minato tutti gli spazi verdi della città, persino le aiuole dentro l’università. Nessuno si avventura più a camminare su un prato perché è sinonimo di pericolo. Estrae dalla tasca una serie di foto, tutte uguali, che riproducono un pezzetto di erba di Sarajevo e le dà a tutti i presenti in sala. C’è un silenzio che scivola liquefatto tra le sedie. La mia porzione di “erba di Sarajevo” sta attaccata sul muro sopra il mio comodino, con una puntina gialla, forse per ridarle vita. Per la mia generazione è ancora più difficile: la Jugoslavia, per noi giovani comunisti occidentali, all’eterna ricerca di una via tra est e ovest, era la terra della neutralità, la capacità di stare in equilibrio senza schierarsi, era la “multiculturalità”, era l’autogestione, era tante cose che forse non era ma che per noi è stata. Per me resta il luogo dove sono andata a sanare le mie “ferite” d’amore. Milano, Bolzano, Ciampino … 2000 e oltre Una parte di Abruzzo, un pezzo di Mosca, un quartiere di Brasilia, un caffè di Amsterdam … dunque Sarajevo è, o era, tutto questo? Io me la ricordo poco, solo la gita fugace di un giorno, molto molto prima che non ci fosse più nulla da vedere. Però mi ricordo, e non so se è una proiezione di speranza dell’oggi, come un posto pieno di fantastiche contraddizioni architettoniche, denso di luoghi così diversi da impedirle di avere una sola identità. Allora si diceva “crocevia di culture”, e forse era così.

Forse: credo che nessuna parola più di “forse” rispecchi così bene quello che da sempre accomuna il mio pensiero e quello di Gea. Questo suo lavoro, che in ogni pezzo inserisce il suono così forte del maybe, mi appartiene quanto mai. Il forse non è per noi l’incertezza, non è la titubanza, ma il contemplare la variabile, il considerare che nulla può essere dato come immutabile e certo. Tutto il lavoro di Gea, dai primi Plastique a oggi ha insistito sullo “sguardo in forse”: cioè sul dare al vedere la potenzialità di una continua mutazione in corso, di una possibile variabile incostante. Nessun paesaggio, nessun luogo, “sono”, ma piuttosto appaiono temporaneamente, si manifestano in un attimo, in uno sguardo, che come tale muta. Lo sguardo costruisce il paesaggio e quindi lo rende instabile, mutevole, liquido. Gli sguardi di tutti si incontrano, si intrecciano, ibridano il paesaggio sul quale si posano e lo edificano. Nel lavoro di Gea la definizione dell’individuo, come quella dell’ambiente che lo circonda, parte dal presupposto che non possa esistere una visione univoca, che non esista una definizione “oggettiva”, un solo modo di percepire e vivere un dato luogo. Ciascun utente, ciascun fruitore di un dato spazio visivo ha una sua personale visione di quel luogo e quindi la sua storia, la sua memoria, il suo presente mobile e mutevole, fanno sì che quel dato luogo venga ogni volta metamorfosato, subisca ogni volta un morphing che è determinato dal semplice essere visto. Sempre più spesso ci rendiamo conto che la percezione del paesaggio, del singolo come dei gruppi, fa si che un dato territorio si trasformi in modo radicale, fino a diventare fisicamente diverso da quello che è sempre stato. La situazione della Sarajevo postbellica si prestava perfettamente a rimettere in campo l’idea di visione policentrica di un luogo, ad estremizzarne le conseguenze anche più forti e radicali. L’immaginario occidentale, debitamente anestetizzato dall’informazione di guerra pilotata e gestita, aspettava da quei luoghi solo immagini di post-distruzione, solo macerie che potessero essere utili a pagare e far crescere il comune “senso di colpa” che, visivamente, appagava una certa ricerca estetica di “guerra necessaria”, di popoli feroci dediti per natura all’autodistruzione cieca, di indefinizione delle parti in gioco. Le immagini fotografiche di cronaca avevano già sciorinato tutte le possibili varianti patetiche al riguardo e potevano finalmente dispiegarsi nel mostrare la bellezza sublime e mediale delle crepe nei muri, dei colpi di mortaio, lasciando che le ferite nell’architettura potessero essere splendida metafora delle ferite nella carne, nel corpo della Jugoslavia. Gea è andata a cercare a Sarajevo solo Sarajevo. È andata a ricercare in un luogo scenario ideale della retorica fotografica, quello che poteva percepire uno sguardo attivo e non contemplativo. In sessantuno immagini ha raccontato tutti gli spazi puliti, ricostruiti o miracolosamente salvati dai bombardamenti, dai colpi di mortaio o di mitraglia e così via. In ciascun pezzo sano, in ciascuna casa ancora in piedi, in ciascun muro intatto, Gea ci ha restituito l’identità multipla e mutevole di un luogo che non è mai morto, che non si è mai arreso. In ognuno di quei pezzi di Sarajevo Gea ha poi lasciato che la sua mente riconoscesse l’intero mondo, ritrovasse le tracce di tutti i luoghi del mondo, ritrovasse i tracciati di una sua geografia dell’immaginario che ha ridato a Sarajevo la possibilità di essere patria incontrastata di tutti i cittadini del mondo. Maybe in Sarajevo non racconta melodrammaticamente la storia di una guerra che appartiene alle esperienze irraccontabili, ma va oltre, mostra come quella città fosse prima, e sarà ancora, il luogo di tutti i luoghi. Come la Biblioteca di Borges contiene tutti i libri del mondo, così Sarajevo è la città che contiene tutte le città del mondo. Ma quello che appare ancora più sublime di questa operazione tanto concettuale quanto sottilmente visiva, è che Sarajevo non contiene tutti quei luoghi solo perché architettonicamente era cresciuta proprio dalla contaminazione e dalla ibridazione di tante culture, ma anche perché Gea riafferma ancora che all’architettura di ogni dove si aggiunge lo sguardo di ognuno. Ogni fruitore dell’opera di Gea, con il suo guardare, attraversa lo spazio di Sarajevo e gli dona nuova identità, vive per un attimo l’emozione del mitico viaggiatore del Giro del mondo, senza mai spostarsi dalle strade di una sola città. I grandi viaggiatori di questo secolo hanno percorso a piedi migliaia di chilometri di immagini e continuano a viaggiare con lo sguardo prima ancora che con le proprie gambe. Ma Gea non ha costruito nulla, non ha creato nessuna fiction, tutto quello che si può vedere nelle sue immagini è Sarajevo, e ognuna di quelle foto potrebbe essere, da sola Sarajevo, ma potrebbe anche non esserlo: FORSE. Scrive Borges in Finzioni: “Bioy Casares, che quella sera aveva cenato da noi, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.” (Borges 1997:7). La contraddizione, la visione soggettiva che “altera” le cose per farle intendere più in fondo: questo è lo sguardo che informa Maybe in Sarajevo. Ogni foto è un pezzo di reale, indiscutibile, che però viene spiazzato, decontestualizzato e ricollocato in modo arbitrario, secondo non una ricerca topografica scientifica, non secondo mappe fedeli, ma secondo il ricordo o la suggestione di un singolo sguardo: quello dell’autore. E a volte, in un gioco sottile, che aiuta a sottolineare lo spostamento, lo stesso luogo fotografato viene poi ripetuto due volte, con due diverse didascalie, che lo collocano in due posti diversi, che gli danno una vaga e deragliante doppia identità dichiarata. La narrazione in prima persona in questo lavoro di Gea è fondamentale: l’artista viaggia nelle sue stesse immagini e si ricostruisce un suo pianeta, si ridisegna le sue mappe mutevoli che regala agli sguardi di altri che, a loro volta, ridisegneranno loro geografie, attraverseranno con i loro occhi quegli stessi luoghi e diventeranno narratori in soggettiva. “Le cose su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. È classico l’esempio di un’antica soglia, che perdurò finché un mendicante venne a visitarla, e che alla morte di lui fu perduta di vista.” (Borges 1995: 22). Ognuna di queste immagini potrebbe stare in un display per cartoline illustrate. Le immagini non hanno nessuna mistificazione, non cercano effetti, sono finanche banali, estenuanti nella loro semplicità. La cartolina illustrata come oggetto ricordo, come feticcio, fissa nello stereotipo una visione collettiva di un luogo. Quante volte guardandone una, inviataci da chissacchì, ci sorprendiamo a ammirare la bellezza del luogo, a invidiare chi ci è stato davvero, a sperare di poterci andare noi stessi un giorno. Viaggiamo attraverso quella pura finzione visiva incuranti del fatto che quell’immagine rifletta una realtà plausibile. Così in queste immagini di Gea, accanto a foto che sembrano quasi immagini di cronaca, con scritte sui muri, si colloca una collezione di “immagini tipiche”, di foto che potrebbero ben essere utilizzate per raccontare l’aspetto caratteristico di un dato luogo. Luigi Ghirri nel 1973, a proposito del suo lavoro Atlante, scriveva: “L’atlante è il libro, il luogo in cui tutti i segni della terra, da quelli naturali a quelli culturali, sono convenzionalmente rappresentati: monti, laghi, piramidi, oceani, città, villaggi, stelle, isole. In questa totalità di scrittura e descrizione, noi troviamo il posto dove abitiamo, dove vorremmo andare, il percorso da seguire ( … ). Il solo viaggio possibile sembra essere ormai all’interno dei segni, delle immagini: nella distruzione dell’esperienza diretta ( … ) il viaggio è così dentro all’immagine, dentro allibro.” (Ghirri 1997: 30). Nel lavoro di Gea un Atlante fantastico, eppure quanto mai reale, ci conduce in un viaggio senza meta nel quale non solo ciò che vediamo appare ma non è, ma ci offre la possibilità d’essere noi stessi cartografi, geografi, che modifichiamo i segni sulle nostre mappe visive. Geografie liquide, instabili e galleggianti, ci immergono in un percorso che si modifica sotto i nostri stessi occhi. Costruire la propria geografia questo è uno degli imperativi che la cultura contemporanea ha di fatto messo in opera. Walter Benjamin, in Parigi Capitale del XIX secolo citava una frase di un alienato mentale che diceva “Je voyage pour connaitre ma geographie.” E proprio la condizione dell’alienato, come la si può ritrovare nella tradizione surrealista e Dada, vive la perfetta condizione di perdita che permette di rimettere in discussione il contesto normativo della geografia. Conoscere la propria geografia corrisponde a due condizioni essenziali per l’arte contemporanea: impossessarsi del luogo fino a farlo divenire parte del sé, parte del proprio territorio interiore e ricostruire il luogo esterno. Il processo che Gea ha seguito nel riedificare la Sarajevo postbellica è proprio un processo di possessione interiore che trasforma il luogo esterno in un luogo interno e interiore. Bisognava prima prendere possesso di quel territorio per poterne introiettare la sua ossessione, per poter in qualche modo uscire dalla sua materialità fisica e rigenerarlo in una visione soggettiva-oggettiva che producesse un’idea di Sarajevo e non l’idea di Sarajevo. Un precedente teorico essenziale a questa visione è l’opera di Michelangelo Pistoletto che, attraversando l’estrema soggettività dell’autoritratto, è arrivato a ridefinire lo spazio come una infinita variabile. Non è casuale che Pistoletto sia giunto alle superfici specchianti dopo un lavoro sulla propria immagine che lo ha posto al centro del suo spazio mentale. Lo spettatore, icona dipinta sui suoi specchi, diventa centro dello spazio, unico punto di riferimento del reale che, di volta in volta cambia. Lo spettatore vero, quello in carne ed ossa che guarda l’opera, non solo ad ogni passo modifica quella realtà con il suo stesso vedere, ma facendone parte egli stesso, la introietta non potendo più distinguere il territorio interno/interiore da quello esterno. Lo spazio delle superfici specchianti non è uno spazio bidimensionale basato sulla prospettiva albertiana, ma prevede che l’osservatore sia posto come un perno, al centro del “suo” spazio, che è solo suo, che è soggettivo e che, ad ogni suo minimo movimento, cambia. L’unico statuto che accetta l’opera di Pistoletto è lo spazio come elemento liquido e soggettivo. La rimessa in discussione della geografia del luogo proprio attraverso la mobilità della visione, può essere assunto come punto di partenza per la comprensione di lavori come Maybe in Sarajevo. In una recente intervista pubblicata sul volume Geografie del lontanovicino Pistoletto scrive: “II quadro divenuto specchiante si è riempito di tutto ciò che si muove al suo esterno, assorbendo quindi uno spazio non più soltanto artistico e simbolico, ma anche sociale e politico. Mi sono trovato proiettato in mezzo ad un territorio costituito da segni fondamentali. Un territorio costruito da segni fondamentali come il tempo, lo spazio, la pluralità, il rapporto tra l’uno e gli altri. Il tempo è qualcosa che, in un certo senso, allunga lo scenario del quadro al di là di quello che è l’icona, di quello che è l’immagine fissa. Nel quadro specchiante il quadro diventa un territorio che non è solo spaziale ma un territorio del vivere.” (Geografie del lontanovicino 2000: 66). E ancora poco più avanti nella stessa intervista: “II lavoro dei quadri specchianti ha introdotto una trasformazione, che sembra minimale, e si è rivelata basilare. Quel tipo di ricerca ha portato il quadro dalla finestra alla porta. Prima di allora non si concepiva un quadro che non stesse a livello di finestra in su, perché sussisteva l’idea rinascimentale della finestra sul mondo. Qual è la funzione della finestra sul mondo? Di allontanare e di situare le persone in una zona protetta da cui guardare. Il quadro specchiante, partendo dalla dimensione umana dell’artista o di chi si riflette, ha necessità di arrivare fino al pavimento, su cui la gente mette i piedi.” (2000: 67). L’opera parte dalla dimensione dell’artista o di chi vi si riflette dentro. Lo spazio, come Pistoletto stesso lo chiama, il “territorio” dell’opera, sono commisurati alla presenza dell’artista e di chi la dovrà fruire. Il fruitore non può più “stare alla finestra” e essere osservatore passivo e protetto ma deve sentire i suoi piedi toccare il suolo stesso dell’opera. In qualche misura tutto Maybe in Sarajevo pone lo spettatore in questa condizione visiva, e quindi mentale, soggettiva, di riattraversamento dello spazio dell’opera, di pratica della propria immaginazione senza paure, senza preconcetti, fuori da una prospettiva scientifica che tende a definire in modo univoco e inequivocabile l’ora, l’allora e il poi. In quella contraddittoria stagione intellettuale che è stato il Situazionismo, si è andata sviluppando una considerazione sull’attraversamento e la ridefinizione del territorio che in parte interessa questo lavoro di Gea. Raul Vaneigem, partendo dall’esperienza dell’Urbanismo Unitario, nel 1961, ridefinisce la città come un luogo di segni mobili, non definitivi, dettati e costruiti da chi la città la vive: “Noi vogliamo abitare in paesi di conoscenza, fra segni viventi come amici di ogni giorno. La rivoluzione sarà anche la creazione perpetua di segni che appartengono a tutti.” (Internazionale Situazionista, 1961: 6, 34). AI di là dell’aspetto meramente utopistico e al di là poi della diversa riuscita che il movimento Situazionista avrà in seguito, i presupposti teorici enunciati tra la fine degli anni cinquanta e i primi sessanta, mettono in gioco elementi essenziali per la comprensione del concetto di paesaggio attivo. Una delle azioni di maggiore interesse da considerare è quella fatta dall’algerino A. Khatib che svolse, insieme ad altri situazionisti, un’esperienza di deriva e di ricerca psicogeografica a Les Halles di Parigi. La rivista situazionista avverte per altro che l’esperienza è incompiuta perché il rilevamento andava completato di notte ma la polizia francese ferma Khatib perché dopo le 21.30 non può circolare in quanto nord-africano (1961: 2, 18). In questo viaggio a Les Halles, la mappatura mobile che se ne trae è proprio fondata sull’idea che, oggetti assolutamente temporanei, come camionicini o semplici cassette di merci, modificano l’aspetto urbanistico del mercato ad ogni momento. Ma quello che interessa maggiormente i Situazionisti è che questa stessa variabile viene amplificata dagli spostamenti dei situazionisti stessi, dalle loro possibili diverse visioni di uno spazio tanto mutevole. In più occasioni nell’Internazionale Situazionista si trovano riferimenti a questa idea che è la stessa percezione di chi attraversa il luogo che trasforma il luogo stesso, non in modo immaginativo, ma sostanziale e concreto almeno tanto quanto l’architettura di mattone. Ancora nella Teoria della Deriva troviamo citato un brano di Chombart de Lauwe tratto da Paris et l’agglornération parisienne che dice: “Un quartiere urbano non è determinato soltanto dai fattori geografici ed economici, ma anche dalla rappresentazione che ne hanno i suoi abitanti e quelli degli altri quartieri” (2, 19). Si torna ancora con forza all’affermazione della concretezza della realtà immaginativa e visiva, come fattore genetico costruttivo di una realtà non solo praticabile mentalmente, ma praticabile fisicamente, socialmente e politicamente. Così mi appare tutto il lavoro di Gea su e con Sarajevo.

Viviana Gravano, 1998

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J. L. Borges, Finzioni, Giulio Einaudi Editore Torino, 1997.
L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole, Società Editrice Internazionale, Torino, 1997.
I. Mulatero, D. Papa, Geografie dellontanovicino, Torino, Masoero edizioni d’arte, 2000.
Internazionale Situazionista, Torino, Nautilus, 1994.
M. Canevacci, V. Gravano, Fuori sede, Roma, Istituto Svizzero di Roma, Roma 2000.
“Aperture”, L’esperienza, n. 5, Aperture Editore, Roma 1998.

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Marika Rizzo è nata in Sicilia nel 1979. Dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Palermo si trasferisce a Roma e frequenta il Master in Curatore Museale e di Eventi Performativi presso l’Istituto Europeo di Design e ottiene il diploma in Tecnica e Linguaggio Fotografico presso il Centro Sperimentale di Fotografia Ansel Adams. Attenta alle contaminazioni tra i diversi linguaggi artistici, è collaboratrice  della galleria RAM radioartemobile di Roma, piattaforma internazionale per l’arte contemporanea, che, tramite diversi canali, tra i quali una web radio, indaga le relazioni tra spazi non specificatamente dedicati all’arte e la sound art.