CITAZIONE
Frammenti dall’opera di Latifa Echakhch
a cura di Paola Bommarito

La ricerca dell’artista marocchina Latifa Echakhch è basata sulla decostruzione e sulla rappresentazione dei modelli identitari normati dalla società, dall’appartenenza religiosa e dallo Stato. Il suo lavoro si concretizza in installazioni, sculture, video ed interventi in cui l’artista decontestualizza oggetti carichi di significato culturale e politico per riposizionarli all’interno di un linguaggio minimalista. L’artista utilizza elementi legati alla suo vissuto, che intrecciano al tempo stesso espressioni della cultura occidentale alla memoria araba. Oggetti e gesti apparentemente ordinari risultano, in molte sue opere, avvolti da un’aura enigmatica e sospesa. Si ripetono nel tempo e si ritrovano, come in una sequenza, nel percorso che scandisce la poetica del suo lavoro. Ogni oggetto è portatore di una storia, è un frammento di un intreccio narrativo che può portarci a molteplici letture.

La pratica di Latifa Echakhch è mossa da un impulso a svuotare gli oggetti che tratta, a ritrovare così in essi l’essenza di segni e significati. Un esempio pregnante si riscontra nella serie dei Frames, in cui l’artista ha disfatto, filo per filo, una serie di tappeti lasciandone intatti unicamente gli elementi che servono a delimitarne la superficie. Ne risulta una cornice vuota, privata del suo valore. La scelta del tappeto in quanto elemento d’indagine affonda le radici nella cultura islamica che riveste quest’oggetto di differenti metafore: da simbolo di fecondità nuziale a carta orientata del territorio. I Frame chiamati in causa da Latifa Echakhch sono parte di tappeti da preghiera, che nella cultura islamica simbolizzano l’estensione e la complessità del mondo e per questo sono considerati oggetti sacri: i tappeti, nel loro stendersi, richiamo la terra che Dio stesso ha steso sotto gli uomini. Molteplici significati assumono inoltre i motivi decorativi dei tappeti, configurandosi come un linguaggio a se stante, che occorre decodificare e comprendere. Nel simbolismo esoterico il tappeto è l’immagine di uno stato d’esistenza o dell’esistenza stessa. Tutte le forme e tutti gli eventi vi sono tessuti e appaiono uniti in un’unica e medesima continuità. Nel lavoro dell’artista, in questa pratica di destituzione, ciò che viene rimosso non è soltanto il significato pratico dell’oggetto, ma il suo intrinseco messaggio simbolico.


Le Derives di Latifa Echakhch sono disegni su muri e pavimenti, ma anche pitture su tela che segnano percorsi astratti. Dal nome stesso non possiamo non notare il riferimento a quella pratica di conoscimento urbano teorizzata da l’Internazionale Situazionista. La Deriva Situazionista è una condizione mentale, un approccio basato su un’idea di totale abbandono, un vagare, perdersi, seguendo le diverse suggestioni che questo vagare può produrre. La Deriva è l’attraversamento incondizionato, è la mappatura esistenziale del luogo, realizzata attraverso l’esperienza che, in quanto soggettiva e mutabile, non può che produrre mappe caotiche e labili. Il secondo legame che si riscontra nelle Derives è dato dall’iconografia decorativa islamica, in particolare dai  classici girih utilizzati per le piastrelle decorative degli edifici architettonici. I girih sono insiemi di linee derivate dalla forma di una stella che suggeriscono simultaneamente una via verso l’infinito, dei complessi pattern geometrici dalla struttura matematicamente studiata, che impiegati dall’artista perdono ogni rigore logico e razionale per abbandonarsi alla tela. In questi dipinti, tramite un processo di divagazione, l’artista realizza una geometria caotica, in cui la simmetria viene falsata e l’assoluto diviene impossibile. Un lavoro che incrocia l’avanguardia francese con l’immaginario arabo.

Superfici astratte, essenziali, coperte da fogli di carta carbone, è così che si configurano le installazioni di A chaque stencil une revolution (for each stencil a revolution). Il riferimento visuale dettato dall’inchiostro blu va nella direzione del Color Field Painting, in particolare ai monocromi blu dell’artista francese Yves Klein, con cui, oltre al colore, hanno in comune l’aspetto performativo. I fogli vengono intrisi di inchiostro blu su cui viene infine versato dell’alcool denaturato che crea delle colature e dà consistenza alla superficie della carta. Attraverso questo gesto la carta carbone viene privata della sua utilità e svuotata del suo potere retorico. Strumento di scrittura e moltiplicatore, la carta carbone veniva utilizzata negli anni sessanta per copiare e stampare manifesti di protesta e pubblicazioni rivoluzionarie. Oggi, nell’epoca della riproduzione e della digitalizzazione di massa, essa si rivela come un oggetto arcaico, un materiale senza tempo. Anche questo lavoro è legato alle problematiche del mondo arabo, in particolare diviene una metafora della difficile situazione del conflitto israelo-palestinese. Il titolo è una citazione di un discorso di Yasser Arafat, il primo presidente del Palestinian National Authority, in cui commentava appunto la proliferazione di stampe di dichiarazioni  rivoluzionarie. In A chaque stencil une revolution (for each stencil a revolution) la potenza della parola viene dispersa, diventa pigmentazione indefinita, incontrollabile, proprio come lo scontro di cui è immagine. Ogni stencil si presenta così come un monumento a una rivoluzione del passato.

Le Rappel des Oiseaux è il titolo della mostra personale di Latifa Echakhch ospitata nel 2010 dalla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo. L’artista concepisce l’esposizione in uno show a due parti, traendo riferimento dalla nota composizione del musicista francese Jean Philippe Rameau. La parola Rappel significa ritorno, richiamo e, così come la pratica dell’artista, indica il recupero di un qualcosa, un richiamare in causa per risignificare. Il termine Rappel viene anche utilizzato per indicare la persona che rientra in scena alla fine dello spettacolo, per concedere al pubblico l’acclamato Bis, ed è per questo che l’artista concepisce una mostra in due parti: per far rientrare in scena il Rappel. Le opere installate si aprono a una combinazione di molteplici letture così come la composizione Le Rappel des Oiseaux di Rameau è costituita da uno stesso gruppo di note che si sviluppa in modi differenti nel brano musicale. Nella mostra risulta evidente l’importanza accordata alla fisicità degli oggetti, una ricerca volta a indagare il concetto di materialità dell’oggetto in sé che viene trasformato in natura morta. Troviamo esposti i suoi Frames; accanto, una piccola teiera posta sotto una grondaia in procinto di raccogliere da essa l’acqua che, secondo un’antica tradizione, sarà ottima per preparare un tè speciale. A ridosso della parete è visibile Stoning, un installazione di semplici pietre, immagine del paesaggio che si presenta dopo un’esecuzione per lapidazione, quando il corpo è stato rimosso e restano solo le pietre sul suolo. Essa è la costruzione di una natura morta, l’espressione di una tacita violenza. Nell’intervista per Mousse Magazine di Milovan Farronato l’artista afferma “Forse, la violenza è intrinseca a gran parte dell’attività artistica; scolpire il marmo, per esempio, non è un’azione facile, oppure tagliare la carta per dei collage o rompere la ceramica per un mosaico… La violenza, nelle mie opere, ha in larga misura, a che fare con i risultati di un’azione radicale e irreversibile; è il modo più semplice per liberare un oggetto dal suo uso, per decostruirlo”.1

Skin è un installazione che consiste in un gruppo di sneakers ammucchiate contro un muro, lasciate giacere per terra forse in fretta e da poco tempo. L’immagine di una calzatura abbandonata è carica al tempo stesso di intimità e violenza, così che, a un primo sguardo, questo ammasso di scarpe ricorda un cumulo di macerie. L’installazione viene così a simboleggiare il dramma dei resti di un massacro, producendo uno stato ansioso legato alle tracce inanimate di persone non più presenti. Skin induce lo spettatore a interrogarsi su un semplice gesto, su ciò che è stato o ciò che avverrà di lì a poco. Potrebbero essere delle scarpe lasciate a terra per entrare in un luogo di culto al quale si accede scalzi, come l’ingresso nelle moschee, in cui questo gesto da parte dei fedeli è necessario e indica i rispetto verso il luogo sacro che si viene a calpestare. In questo senso l’opera rimanda a riti religiosi collettivi. Dal titolo possiamo invece trarre il riferimento agli “Skin-Party”, feste sempre più diffuse tra i teen-agers, tra musica, sesso e droghe, in cui si abbandonano le scarpe, e ci si spoglia, come atto di protesta e rivoluzione delle convenzioni. Skin viene così a comporre un ritratto generazionale intriso di euforia e rivolta, legato a una cultura più che contemporanea.

Non annunciano nessuna nazione, istituzione o partito politico. Si avvicinano indifferenti e si sfiorano quasi ostili, così come i popoli del mondo. Sono i pennoni a cui è stata sottratta la bandiera che compongono l’installazione Fantasia. La vediamo installata nel cortile della galleria milanese Kaufmann Repetto, negli spazi espositivi della Tate Modern di Londra, e ai Giardini di Venezia nel viale che conduce al padiglione internazionale della 54esima Biennale d’Arte di Venezia. Le aste di metallo ci sovrastano, ci raccolgono in un caos di linee all’interno di una disposizione d’insieme che non è più armonizzata. Privando questi oggetti della loro funzione più evidente e rendendoli obsoleti, il gesto si configura come una sorta di trasformazione minimizzante e destabilizzante. In un simile approccio dialettico, l’eco fantasmatico dell’oggetto rimosso è amplificato. Assenza, sottrazione e occultamento divengono nella pratica di Latifa Echakhch una strategia per allestire un racconto politico, una percorso tra nazioni incapaci di comunicare. Questo lavoro racconta la fragilità del concetto di confine, è un’esplorazione dell’identità sia individuale che collettiva, dell’appartenenza e dello sradicamento culturale. In questo modo la ricerca di Latifa Echakhch è occasione di svelamento di quei codici impliciti che talvolta ci sfuggono.

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1 Nature Morte, by Milovan Farronato http://moussemagazine.it/articolo.mm?lang=it&id=101