BURNING ARCHIVES
Dinnanzi all'archivio (di Archivi Effettivi)
di Giulia Palladini, Annalisa Sacchi e Marco Pustianaz

I tre curatori della conferenza internazionale Archivi affettivi / Affective Archives (Vercelli-Torino, 11-13 novembre 2010) sondano le possibilità di un’archiviazione affettiva, dentro e dopo l’evento.


Snapshots – Istantanee

Quasi tutte le foto donate all’archivio imperfetto di Archivi Affettivi sono istantanee. Snap-shots. Immagini esistite per il tempo di uno schiocco di dita, poi scomparse. Immagini che non hanno un prima, né tantomeno un dopo. Immagini-istante. Ognuna di queste immagini esiste e resiste nella moltitudine di questa raccolta; si offre nella nella sua singolare bellezza, forza o stupidità. Si aggrappa alla superficie del tempo e su di essa si ostina a esporsi, nel suo frettoloso scadere come presente.
Il loro irresponsabile apparire obbliga il mio sguardo alla responsabilità di un riconoscimento; conduce la mia memoria a un confronto con la superficie di questo tempo – ma nel far questo discute, rifugge e vanifica proprio l’importanza di ogni istante come tale.

Ogni istante fotografato è, in effetti, un momento qualunque. Non si tratta di un evento, a meno che non si consideri evento la sfrontatezza stessa dell’apparire di ogni immagine. Si tratta di un tempo in cui è custodita la possibilità dell’indifferenza- la mia, quella di ognuno di voi e più di ogni altra l’indifferenza dell’immagine stessa verso di me, verso il mio tempo, o l’istante in cui la sto guardando.

Il mio riconoscimento, d’altra parte, non avviene in un istante e non riconosce quell’istante; è in un certo senso indifferente ad esso– ma coincide con il tempo in cui ogni immagine incontra il mio affetto e inizia ad abitarlo, un tempo senza fretta. E’ in questo tempo che si condensa un futuro antichissimo.

Voglio immaginare qui una narrazione che estrae ogni istantanea dal proprio istante e la sottrae a un vettore emotivo che possa suggerire una direzione al mio gesto di riconoscimento. Sparpagliare le immagini sulla superficie di un tempo rotondo, dove presagio e nostalgia si sovrappongono, confondendosi. Sto pensando, ad esempio, ad un ritratto di Claudia Castellucci, in cui lei non mi guarda.

Ha gli occhi bassi, le mani conserte sul grembo, come se avesse freddo; o forse questo freddo giunge a me come riflesso dell’ampia sciarpa che le avvolge il collo, tessuta di una lana scura, come il suo maglione, che disegna i contorni della sua figura sullo sfondo di un muro di mattoni. O ancora, mi giunge come la sensazione di un’altra mattina d’inverno, in cui la stanchezza del mio corpo intensificava il freddo di quel muro di mattoni, nella cripta vuota della chiesa di S.Andrea a Vercelli. Nella foto Claudia sorride, come tra sé e sé. Scelgo per questa istantanea una data e un momento del giorno, e so che essi non hanno a che fare con il suo istante, non gli corrispondono. Mi accorgo che non sono neppure io a scegliere questo tempo per lei, questo ritratto porta con sé un immaginario rintocco sulla mia pendola: si tratta del 21 ottobre 2010, alle quattro. In quel pomeriggio, Claudia Castellucci ha trascorso tre ore a Vercelli, per dare luogo a ciò che lei stessa, in una lettera a noi, ha chiamato “il tempo del ricevimento”, avvenuto circa un mese prima delle tre giornate di Archivi affettivi. Gli invitati a ‘ricevere’ –  o coloro la cui presenza Claudia ha ricevuto – erano prevalentemente studenti, alcuni dei quali molto giovani e certamente digiuni di alcune parole. Le parole ‘archivio’ e ‘affetto’ – probabilmente – erano giunte a loro incrostate della fretta e banalità della lingua, oscurate dalla Storia, paralizzate dalla mancanza di meraviglia. Durante il suo ‘ricevimento’, nella cripta di Sant’Andrea dove un mese dopo Archivi affettivi ha avuto luogo, Claudia ha voluto servire agli studenti inaspettati assaggi di stupore, frammenti di pensiero attorno all’archivio e agli affetti, l’idea e la grazia di un momento sospeso in cui s’incontra un’opera d’arte. Non preparandoli a ricevere le parole che altri avrebbero depositato nel loro ascolto un mese dopo; ma invitandoli ad abitare il nostro archivio, partecipando all’affetto che lei stessa immaginava ognuno di noi stesse provando, scrivendo e pensando agli affetti trattenuti nel ricordo dell’incontro con un’opera, il cui racconto una parola antica racchiude nel suono spigoloso del termine ekphrasis.

Sembra sorridere di questo affetto, Claudia, nel ritratto che sto guardando. E non guarda gli studenti, perché non cerca conforto in essi, né il compimento di una comunicazione. Cerca una relazione nel tempo, come accade in quest’immagine – una relazione sospesa, che si dà in tutta franchezza, in assoluta solitudine, in assoluta potenzialità. Curiosamente, quel pomeriggio di ottobre prima di Archivi affettivi, Claudia ha parlato a lungo ai suoi invitati dell’impossibilità di “finire” un ritratto.

Raccontò loro di altri pomeriggi, quelli in cui Alberto Giacometti ripetutamente tentava di ritrarre l’amico James Lord, continuamente fallendo, di volta in volta rinunciando a racchiudere in un istante la durata del volto a lui caro. Pensai a Cézanne e alla sua montagna, al tentativo inesausto di ri-incontrare l’immagine da lui amata la prima volta, di fermare la durata di quell’affetto in segni grafici che potessero archiviarlo. Non ricordo se lo dissi, non ricordo se pensai all’indifferenza dello sguardo di quella montagna, (non) rivolto a Cézanne. Ricordo però che l’ultima immagine che Claudia mostrò, senza aggiungere altre parole, fu una fotografia dell’artista Gino de Dominicis, dal titolo lunghissimo: Palla di gomma lanciata da un’altezza di due metri colta nel momento immediatamente precedente al suo rimbalzo.

L’archivio di ciò che non è ancora

Le due giornate vercellesi di Archivi affettivi si sono concluse con un altro ‘ricevimento’. Si è trattato, nuovamente, di ricevere alcune parole, di accogliere un pensiero in atto, “nel momento immediatamente precedente [e stavolta successivo] al suo rimbalzo”. Ognuno dei quattro testi che si era convocati ad ascoltare era stato smembrato in tredici punti interscambiabili; poi stampato sulle carte di uno stesso seme in un mazzo di carte; quindi smarrito nella moltitudine di carte bianche dello stesso mazzo da cinquantadue. Nella stanza dove il Gioco inventato da Lois Weaver ha avuto luogo – diversa da quella che compare nei manifesti (il Salone Dugentesco) e nelle cartoline, provvisoriamente archiviati nella casa di Marco e Federico – vi erano cinque tavoli coperti da un panno verde, a ognuno dei quali sedevano quattro giocatori, selezionati tra i partecipanti ad Archivi affettivi. Il quinto tavolo era composto da quattro ‘respondents’, chiamati a depositare sulle carte bianche del proprio mazzo brevi risposte ai frammenti di testo letti dai giocatori degli altri tavoli.

La circolazione di questi testi, affidati alle cure della parola e dell’ascolto di una piccola polis di partecipanti (coloro che sono chiamati a partecipare e a dimenticare, come ha proposto Cesare Pietroiusti) sembra mimare il movimento delle due giornate di Archivi affettivi. Nel gesto di questa condivisa spartizione e collettiva documentazione (come performance e come traccia) si costruisce un archivio provvisorio, brulicante, che impedisce ogni idea di origine, sovverte la scrittura come deposito di un pensiero senza tempo, mette in scena i corpi come dispositivi di custodia. Questo movimento – il brulichio di questo archivio affettivo – sembra infatti (e)muovere anche la scrittura delle ‘risposte’ (che in molti casi erano in realtà domande), redatte a penna sulle carte bianche in un tempo che non consentiva dettagli, ma chiedeva risposte ‘istantanee’.

‘Ricevo’ una di queste risposte e la espongo di seguito, affidandola al tempo distratto della vostra lettura sullo schermo, all’istante in cui la incontrerete. Si tratta di una risposta istantanea che ora riposa sul supporto di un’immagine digitale.

Il tempo di questa scrittura, in altre parole, è divenuto immagine- ha condensato sulla sua superficie lo sforzo della mano che teneva la penna, il calore delle dita che scrivevano, il rumore delle parole ascoltate. La sua ‘origine’ non ha importanza, perché ora ‘esiste’ in tutta franchezza, in assoluta solitudine, in assoluta potenzialità.

La carta mi racconta della salvazione di un affetto che non è ancora tale; mi domanda cosa vuol dire archiviare ciò che ancora non ha un nome, ciò che ancora non è stato; mi chiede se esista un luogo dove la potenzialità di un affetto in divenire può stare ferma nel tempo, in un istante. “For example the experience of falling in love, to be recovered from a place-name, or from a place that is still there. ‘There’ is a place where one is still falling, or can we say: still learning how to fall. In falling, I am learning how to fall, still”.

La palla di gomma nella foto di De Dominicis è ferma immobile nell’attimo prima del suo rimbalzo; essa ne è il presentimento, il presagio, la memoria. Essa condensa la nostalgia della sua attesa, la potenzialità del suo fallimento. C’è stato un tempo, nelle nostre conversazioni, in cui Archivi affettivi non era ancora avvenuto. Mi sembra quasi di non ricordare quel tempo, di non ricordare com’era. Ma se ne osservo le tracce – le nostre lettere, gli appunti sui miei quaderni, le primissime bozze condivise – si offre a me un sentimento di nostalgia. Più precisamente, forse, dovrei chiamarlo un presagio di nostalgia.

(Im)memorabilia

Ho avuto già a che fare con repertori di immagini legate ad eventi. So bene, ad esempio, che rapporto intrattengono col teatro che si inabissa.
Ma è la prima volta che siamo noi artefici dell’evento e che, nel costruirlo, abbiamo voluto che la testimonianza passasse di mano e si moltiplicasse, invitando chiunque a contribuire. Abbiamo scritto un appello alla documentazione partecipata. Ci hanno risposto con immagini soprattutto, ma anche con brevi video, qualcuno con la scrittura. Qualcun altro ci ha invitato a parlare di nuovo di Archivi affettivi, segno che gli affetti, come gli archivi, circolano (o dovrebbero circolare) e quelli che tu inviti a testimoniare chiederanno poi a te di testimoniare di nuovo.
Ma un archivio che abbia la forma della testimonianza personale composta dai curatori dell’evento è sempre di fatto riappropriante, e rischia di cedere alla lusinga del “noi”.
È stato precisamente per scongiurare il pericolo del discorso autoctono – “noi” che parliamo di quello che “noi” abbiamo fatto – che avevamo invitato tanti, anzi tutti, a una documentazione senza limitazioni e dal ritmo compulsivo, una costellazione di memorie parziali e capaci di sostenere il peso dell’evento.

E allora proverò ad assumerla una di queste memorie, questo sguardo dell’altro, di uno spettatore qualsiasi (ovvero tale che comunque importa). Non voglio risalire a chi abbia scattato la foto, non mi interessa individuare il principio. È una foto di esterni, e vedreste una giornata invernale con una luce tersa. Persone non rivolte verso l’obiettivo che parlano, altri da soli, seduti. È una foto rubata, nessuno dei soggetti ritratti sembra far caso allo scatto. Si vede quello che potrebbe essere il bordo di una piscina, e oltre questo bordo sono disposti sdraio e ombrelloni. Che la giornata sia invernale si capisce dal fatto che tutti indossano cappotti o giubboni, c’è addirittura una persona seduta con un plaid sulle gambe. Non è, certo, che l’immagine sia tutto, e neppure, propriamente, che l’immagine sia tutta (nulla di conclusivo in questo rettangolo di visione, piuttosto qualcosa di molto precario, riluttante a dire l’evento, le sue icone, i suoi memorabilia, riluttante anche semplicemente a catturare uno sguardo o un volto preciso, che potrebbe forse apparire emblematico).  Questa immagine non trattiene nulla di centrale, nessuna “prova” eloquente. Ne abbiamo ricevute e noi stessi scattate tante altre assai più “significative”, in cui vedreste che la scena è una magnifica piscina fascista completamente ristrutturata, che questa piscina è piena d’acqua e al centro c’è una zattera e sulla zattera un muro di amplificatori. In un’altra, avreste visto l’interno del camper da cui i relatori trasmettevano le loro voci agli amplificatori della piscina, orchestrando gli interventi come in una trasmissione radiofonica, e avreste visto Alan Read – che forse quegli spettatori catturati nella mia foto iniziale stanno nel frattempo ascoltando – intento a far camminare sull’acqua della piscina Brian Jones, il fondatore dei Rolling Stones morto ventenne in un’altra piscina. L’immagine che ho scelto, al contrario, non trattiene alcunché di memorabile, se non l’evidenza di un certo ambiente, di qualcosa che passa tra gli spettatori. Questa immagine è paradossalmente la mia immagine perché evita di rimpicciolire a frammento (auto)biografico la variegata densità e consistenza dell’evento che si situa “tra”, cioè in quell’occasione che molti, me compresa, hanno spartito.

Incitamento e affetto

Metto questa foto nello spazio intervallare in cui convochiamo quello che è stato in attesa di quello che sarà, in attesa della moltiplicazione e della dispersione a venire di Archivi affettivi. La metto, in un certo senso, nel luogo che più le è proprio, ovvero nel mio personale archivio degli affetti.
La difficoltà sta nel fatto che i termini così allineati assumono dapprima una tonalità ibrida e, subito dopo, inducono un sospetto: è davvero possibile scardinare le fattezze stereotipate che assume l’archivio, mettere in movimento il principio patristico che incorpora, le spoglie incolori che sono i resti dell’evento, attraverso l’affetto?
È, sì, possibile, finché l’affettività che convochiamo non è paratattica, ma bellica, è la risorsa strategica che muove la vocazione all’urgenza della testimonianza, è ciò che incita e incalza, è ciò che si muove nelle retrovie della documentazione…
L’archivio, del resto, andrebbe in se stesso organizzato in quanto passione, come aveva indicato Derrida in un saggio giustamente celeberrimo dove parlava di “mal” o “febbre” d’archivio. Lì, l’archivio e l’affetto si mostravano per quello che sono: passioni simmetriche e addirittura speculari.
Se la stabilità si presenta come un requisito esclusivo dell’archivio tradizionale, cioè di quella nicchia storico-culturale capace di offrire una protezione artificiale al capriccio degli affetti, l’archivio affettivo è instabile, transitorio. Se il primo è selettivo e regola preventivamente le proprie logiche di inclusione e di esclusione, il secondo è affollato, disordinato, condiviso. Se l’archivio tradizionale si fonda sulla reiterazione ricorsiva, quello affettivo è dominato dalla tonalità emotiva.
L’archivio affettivo è de-locato, perché il suo aver luogo ha bisogno dei corpi. Singolare, ma non coincidente col soggetto, perché avviene nella singolarità della relazione tra i soggetti. Virtuale, perché conserva per sé il regime della possibilità, e bifronte come ogni testimonianza: aperto alla salvazione e alla diaspora.. Per questo, del convegno Archivi affettivi, non pubblicheremo gli atti (come si conviene alla logica dei convegni). Tenteremo invece di rendere conto del pensiero in atto, quello che muta e si ibrida nell’evento dell’incontro. Laddove gli atti sono gli addentellati logici della forma-convegno in cui le singolarità restano monodiche, il pensiero in atto è uno sviluppo – incerto – del pensiero tra noi, quel pensiero che posso vedere pensato al sole, una mattina di novembre, aspettando che compaia Brian Jones.

Nella foto che continuo a guardare la quota di affetto preindividuale, che perdura irrisolta nella memoria dell’evento, si manifesta al di fuori della mia esperienza singolare e si situa nella relazione che si è venuta istituendo tra i soggetti, quel noi che comprende molti e non i tre che l’hanno immaginato e voluto al principio.


Masticare e dimenticare

Al punto 7. del manifesto per un’archiviazione affettiva, distribuito al pubblico della nostra conferenza per invitarlo a collaborare, si legge: “Alcune parti di Archivi affettivi /Affective Archives si auto-archivieranno sotto forma di tracce materiali”.

Alla fine della performance di Cesare Pietroiusti, nella quale ha masticato e ruminato una banconota da 500 euro per una decina di interminabili minuti, questo è ciò che rimane: una pallottolina indistinta lavorata dalla saliva dell’artista. Offerta in ostensione al pubblico, questo residuo di banconota è l’archiviazione paradossale di una performance che ha distrutto il valore monetario (e degradato l’oggetto “banconota”) in cambio della mera promessa di un valore “altro”, generato dall’atto performativo e suggellato dal contratto firmato da tutti i presenti. La firma che abbiamo apposto certifica che i partecipanti al convegno possiedono collettivamente “quella che fu una banconota”. Eccola, questa reliquia, fotografata mentre viene portata in giro tra le poltrone della cripta, e come appare ora.

Tra tutti i resti materiali di Archivi affettivi, questo è potenzialmente quello di maggior valore e al tempo stesso il più problematico. La sua natura sospesa e ibrida finisce per interrogare tutti gli altri resti affettivi del “convegno” – un insieme di eventi, relazioni e incontri che con grande difficoltà si lasciano ridurre a unità. Rivisitare l’eterogenea mole di residui, prodotti non solo in quei tre giorni, ma in tutto il lungo periodo di incubazione, processo e realizzazione, è un’ulteriore tappa nella disseminazione dell’evento: inassimilabile dall’archivio nella sua integrità, o forse assimilabile a patto di dimenticarlo, lasciando che passi altrove. Perciò forse solo adesso, a distanza di quasi cinque mesi, mi sembra che il titolo del panel ideato da Cesare Pietroiusti, “Partecipare e dimenticare”, possa cominciare a essere capito, oscuramente compreso e assimilato. E’ come se la struttura affettiva di quel panel rilasciasse solo molto tempo dopo l’evento – ai margini della dimenticanza, in verità, tanto ci sembra lontano – l’effetto della sua intima trasformazione.

Ciascuno degli altri tre panel ingaggiava radicalmente, sino quasi a rasentare il punto di rottura, la possibilità di un passaggio, di una trasmissione, di un’archiviazione, pur nell’esperienza del differimento e dell’asincronia, della differenza (linguistica, ma non solo), dell’assenza o non-compresenza, della disseminazione e dispersione: tutte condizioni pericolose per la costituzione di un archivio e di una memoria condivisibile, ma nondimeno profondamente segnate da una marca affettiva, e perciò condizioni ineliminabili per la testimoniabilità di un evento. Senza un affetto nulla è testimoniabile. Ma affettivamente nulla è testimoniabile se non come esperienza: l’evento ne esce affettivamente trasformato, “masticato” e archiviato come traccia, come oggetto non identificato.

A confronto con gli altri il panel di Cesare Pietroiusti appariva quello più disarticolato: dapprima sette spettatori che dichiarano pubblicamente sette strategie per dimenticare, poi tre relazioni, poi la lezione di Cesare su alcuni passi del Capitale e infine la performance. Il pericolo insito in questa struttura era quello di mettere tra parentesi i tre relatori, incorniciati tra i dimenticanti e la performance. Tale cornice avrebbe facilitato la memorabilità delle loro parole o le avrebbe invece sovrastate? Quale performatività agisce la cornice rispetto agli enunciati che ospita e a cui dà rilievo? La questione della cornice e della dimora, del resto, ha caratterizzato tutta la struttura sperimentale del convegno, così come la moltiplicazione e interconnessione etico-estetica delle sue “cure”: tre curatori-relatori, quattro artisti ideatori dei panel, quindici relatori. La moltiplicazione della cura, intimamente legata alla pluralità dei livelli delle cornici ospitanti – a un discorso dunque meta-performativo – era chiaro indice di un desiderio di affettività moltiplicata, di un’archiviazione e auto-archiviazione incitata e attivamente ricercata, e tuttavia vincolata fragilmente agli affetti suscitati ed esplicitamente affidata a nessun garante in particolare.

La cornice dimenticante e partecipativa di Cesare è un esempio di questo paradossale affidamento, tanto più paradossale data la natura dell’oggetto a noi affidato per contratto. Partecipare e dimenticare paiono due “attività” contraddittorie, e la natura della loro congiunzione sibillina. Se si partecipa sapendo già che la propria partecipazione sarà dimenticata, persino da noi stessi, l’euforia propria della partecipazione e della condivisione sembra già tingersi di melanconia. D’altra parte, l’indisponibilità del presente suggerito dalla dimenticanza non solo mette in dubbio il fatto che il presente possa essere pienamente o assolutamente partecipabile nel qui e ora – c’è un presente che ci sfugge pur partecipandovi e che quindi abbiamo già dimenticato nel presente – ma lo libera anche dalla tirannia di essere presente a sé stesso. Paradossalmente, aprendo buchi nella partecipazione presente, la dimenticanza lo apre a partecipazioni future. Ma tutto ciò non poteva essere chiaro nel momento del convegno perché tutto ci sembrava troppo presente e impossibile, (irresponsabile?) da dimenticare.

Che dire poi dell’inversione tra partecipare e dimenticare realizzata dal panel? La dimenticanza, generalmente ed erroneamente considerata come atto posteriore, partecipava al panel come suo atto inaugurativo. Non era paradossale che la dimenticanza venisse messa in gioco ancor prima che il contenuto da dimenticare fosse stato positivamente enunciato? Inoltre, dire di voler dimenticare garantisce forse la messa in mora della memoria? L’atto linguistico “Voglio dimenticare” è performativo di una dimenticanza o la rende memorabile? E in quanto ai relatori, si saranno sentiti dimenticati ancor prima di parlare, o né più né meno dimenticabili di quanto non lo fossero, tacitamente, anche i relatori degli altri panel? La potenzialità memorabile coltivata da Archivi affettivi aveva indubbiamente un aspetto collaterale di spreco, di eccedenza superflua che è garanzia certa di perdita; l’articolazione di Archivi affettivi in quattro atti distinti significava ricrearlo e distruggerlo almeno quattro volte in due giorni (senza contare il forum a Torino), ricominciando ogni volta con diverse condizioni di parola, con diverse cornici spazio-temporali e performative. Ogni panel, nella sua specifica differenza, non solo complementava i precedenti, ma li azzerava anche, necessitando nuovi inizi, altri giochi. La dimenticanza esibita platealmente da Cesare era dunque un gesto non così estraneo a quell’azzeramento ripetuto: ospitare meta-performativamente la dimenticanza nella struttura stessa del convegno ne seminava anche la promessa, laddove generalmente i convegni scientifici si fingono memorabili e importanti, sinché la dimenticanza cade su di loro come un impensato, muto e greve di futilità.

Il valore di una distruzione

Simmetrica rispetto alla dimenticanza iniziale, vi è poi la “distruzione” finale della banconota. Questa distruzione, ma anche degrado e trasformazione, è una performance non meno complessa della dimenticanza: essa nasconde aperture inaspettate. In particolare vorrei tornare brevemente sulla questione dell’enigmatico possesso di quella che fu la banconota da 500 euro, poiché la natura di quel possesso, vuoto eppure certificato dai contratti sottoscritti, può dirci qualcosa su ciò che possiamo dire di possedere dopo Archivi affettivi. Nello spazio di quei dieci minuti a evaporare sotto i nostri occhi era il valore di scambio, la qualità immateriale eppure socialmente insopprimibile che rendeva preziosa un sostrato materiale in sé di scarso valore. Dinanzi a noi evaporavano in olocausto tutte le merci, beni e servizi scambiabili con quella banconota, e dunque nascosti dentro di essa. La sensazione scandalosa prodotta dai primi minuti della masticazione era dovuta alla percezione in tempo reale di una distruzione catastrofica e subitanea relativa al valore della banconota, che passava da 500 a 0 senza alcun passaggio intermedio.

Paragonata a quella distruzione, invisibile eppure affettivamente tangibile come scandalo, il lento degrado della banconota fisica rendeva evidente la natura doppia della banconota stessa: la distruzione del valore nominale liberava il sostrato materiale del segno-denaro e lo rendeva processabile da un’altra lavorazione, paziente e metodica. La possibilità di denominare questa seconda lavorazione un gesto “artistico” dipendeva a sua volta da un’altra performance di attribuzione di valore. Essa presuppone un altro pubblico che non sia quello del consumatore in un’economia delle merci, e la creazione fiduciaria di questo secondo pubblico – un pubblico di produttori di valore – era stata anticipata dalla sottoscrizione dei contratti. Il contratto ci aveva reso comproprietari di un nuovo oggetto, il cui spazio di valore era stato liberato virtualmente dalla distruzione del valore precedentemente insito nella banconota. Due cose possediamo di questa performance: possediamo la banconota che non esiste più – il ricordo del suo valore e lo scandalo esperito della sua distruzione – e il suo resto, non monetario eppur valorizzabile, reso disponibile in una temporalità né presente né futura. La reliquia masticata d’artista può certamente tornare ad appartenere al mondo del mercato con le sue quotazioni e i suoi flussi di scambio, oppure può giacere in riserva, in una virtualità attivamente dimentica del sistema delle merci. Qualunque di queste possibilità si avveri, essa è nelle nostre mani. In questo modo anche noi siamo sdoppiati come quella banconota: da un lato, partecipi dell’economia capitalistica e conseguentemente sdegnati per lo spreco “immorale” di 500 euro, dall’altro implicati per contratto a dimenticare “quella che fu una banconota” e a ripossederla come virtualità, dal valore in(de)finito, fiduciosi e pronti, dunque, per altre economie.

E’ la medesima fiducia e la stessa dimenticanza che ci chiede l’archivio affettivo, all’uscita dall’evento.

 

 

Giulia Palladini is a post-doctoral researcher and curator in Performance Studies, currently based in Germany (University of Erfurt). After her PhD (University of Pisa, 2009), she co-directed the Performance Studies international research cluster Affective Archives (Vercelli, November 2010), the lecture series Living Rooms (L’Aquila, October 2011) and she is now completing her first monograph on the 1960s New York underground scene (forthcoming for University of Michigan Press). She is one of the editors of the journal Art’O_cultura e politica delle arti sceniche and has published in several international journals of performance studies and contemporary art. Her current research interests concern performance labor and free time, the archive, and the circulation of affects by means of artistic practice.

Marco Pustianaz è nato a Milano nel 1959. E’ docente di letteratura e teatro inglese presso l’Università del Piemonte Orientale (Vercelli). Ha curato volumi interdisciplinari di studi di genere e di teoria queer (Generi di traverso, Maschilità decadenti, Queer in Italia) ed è co-direttore della collana di intercultura di genere “Áltera” per l’editore ETS. Nell’ambito degli studi teatrali e performativi si è occupato in particolare del rapporto tra archivio e affetti, tra memoria, documento, traccia ed evento (v. “Teatro superstite”, Art’O 27, primavera 2009). Alla fine del 2010 ha curato insieme con Annalisa Sacchi e Giulia Palladini la conferenza/evento internazionale Archivi affettivi a Vercelli, di cui è in preparazione un catalogo. È membro di Performance Studies international.

Annalisa Sacchi Attualmente Lauro de Bosis Fellow presso Harvard University, dove insegna Estetica del teatro di regia e svolge ricerca sulla struttura dell’empatia dello spettatore di fronte alla rappresentazione della violenza a teatro. Per l’editore Bulzoni è uscito nel 2012 il suo Il posto del re. Estetiche della regia nel modernismo e nel contemporaneo, e con A. Jovicevic un numero doppio di “Biblioteca Teatrale” su I modi della regia nel nuovo millennio. Con E. Pitozzi e in collaborazione con la Socìetas Raffaello Sanzio è autrice di Itinera. Trajectoires de la forme Tragedia Endogonidia (Arles, Actes Sud, 2008). Dal 2006 è caporedattrice di Art’O_cultura e politica delle arti sceniche.