CITAZIONE
Riflessioni intorno alle pratiche della citazione nell’arte contemporanea
di Lucilla Meloni

Mauricio Lupini
Diorama Penetrable (4 foreste tropicali)
4 libri “Foreste Tropicali” tagliati e incollati.
Vista dell’istallazione, Galleria Casas Riegner, Bogota, 2008
(foto courtesy galleria Casas Riegner)

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Una premessa introduttiva e indispensabile alla lettura di questo breve testo, è che la citazione viene qui intesa come “sguardo e prelevamento” operato dall’artista su opere d’arte o frammenti di esse, sulle forme cioè che sono giunte o giungono a noi in quanto già codificate come opere d’arte, dove la citazione è assunta in ogni caso come un’operazione critica di scarto linguistico. Pertanto non farà parte di questa riflessione il processo di appropriazione, messo in opera fin dalla metà degli anni Ottanta da molti artisti, dei diversi codici linguistici che compongono la realtà contemporanea (segni legati al mondo pubblicitario, al mondo della comunicazione e via dicendo).

Affrontare il tema della citazione nella storia dell’arte è come muoversi in un mare magnum, perché come sanno gli storici, l’arte è sempre stata un guardare e un guardarsi e perché ogni opera  soggiace, per sua natura, al principio di metamorfosi, che, come ha scritto Andrè Malraux: “non è un accidente, è invece inerente all’opera stessa, il cui destino è quello di sopravvivere all’autore cominciando un’imprevedibile vita di metamorfosi e di resurrezioni, in una continuità ininterrotta che lega opera ad opera”1.
Se tra “rinascite” e “rinascenze” l’arte occidentale è stata caratterizzata nel corso del suo manifestarsi dalla sopravvivenza dell’antico, citato e declinato diversamente a seconda delle epoche, nel Novecento, con l’irrompere sulla scena dell’arte della nuova sensibilità portata avanti dalle avanguardie storiche, questa linea di continuità sembra incrinarsi.
Tuttavia, puntando lo sguardo sul contemporaneo, si assiste a un’inaspettata sopravvivenza delle pratiche della citazione: “pratiche” al plurale, a indicare l’impossibiltà di una loro riduzione a un denominatore comune.
Si tratta qui di un concetto di citazione  (interno al mondo delle forme dell’arte), che ha irrimediabilmente perduto, a partire da Duchamp, le sue caratteristiche storiche e auratiche (l’ “auctoritas” per secoli attribuita all’antico), e si snoda tanto nello sguardo che l’artista volge su un’opera a lui temporalmente lontana (testimoniando al contempo la sopravvivenza di alcune forme che nel tempo non hanno perduto il loro carattere di esemplarità), quanto su quello posto su un’opera vicina, o addirittura a lui contemporanea.
Il motivo della citazione percorre l’arte contemporanea e non è riconducibile, semplicisticamente, alla cultura del Postmoderno, ma appare come una sorta di “fil rouge” che si snoda tra avanguardia e neoavanguardia, fino all’attualità.
Quando Foucault  analizza la funzione-autore, la funzione-soggetto (“pluralità di ego”), chiarisce la differenza tra gli Autori  “fondatori di discorsività” (ad esempio Omero, Aristotele, i Padri della Chiesa, Marx e Freud) e i comuni autori delle proprie opere: “Detti autori hanno questo di particolare, che non sono soltanto gli autori delle loro opere, dei loro libri. Essi hanno prodotto qualcosa di più: la possibilità e la regola di formazione di altri testi”, al contrario di importanti romanzi che hanno aperto la strada a un genere, come ad esempio “Il castello dei Pirenei” di Ann Radcliffe, che ha reso possibile i romanzi del terrore del XIX secolo.

“I testi di Ann Radcliffe hanno aperto il campo a un certo numero di somiglianze e di analogie che hanno il proprio modello e principio nella sua opera specifica (…) Al contrario, quando io parlo di Marx e Freud come ‘instauratori di discorsività’, voglio dire che essi non hanno reso semplicemente possibile un certo numero di analogie, ma hanno reso possibile (in maniera altrettanto completa) un certo numero di differenze. Essi hanno aperto lo spazio per qualcosa d’altro che per se stessi, che pertanto appartiene a ciò che essi hanno fondato.(…) Freud ha reso possibile un certo numero di differenze in rapporto ai suoi testi”.2

Trasponendo il discorso dalla letteratura e dalla poesia alla ricerca visiva, potremmo dire che alcuni quadri, alcune sculture, alcuni fatti formali si danno come elementi “fondatori di discorsività”: la sopravvivenza delle “statue” ne è un esempio, così come alcuni brani pittorici del Rinascimento come “L’Ultima cena” di Leonardo e la sua “Monna Lisa”, che non cessano di essere ripetuti “nella differenza” della citazione. Così come, nell’arte contemporanea, le invenzioni e il pensiero di Duchamp, che hanno segnato un prima e un dopo, si riverberano in mille rivoli diversi.
Si tratta di un corpus storico a disposizione di colui che lo guarda per reinterpretarlo, e ogni nuovo sguardo ne conferma l’attualità.
Saranno poi i “differenziali temporali” che compaiono nei diversi lavori e che interrompono “il corso della rappresentazione” a declinare  i rapporti tra l’opera presa a prestito e la sua rivisitazione, tra l’originale e la sua rilettura.
In questo contesto, in cui si prende in considerazione l’arte contemporanea, la citazione è assunta in ogni caso come un’operazione critica di scarto linguistico, sia che l’artista operi “alla maniera di”, sia che prelevi direttamente alcune iconografie, o parte di esse, che vengono trattate quindi come innesto testuale (Giulio Paolini ad esempio), sia che rivisiti delle forme dell’antico o del contemporaneo e su queste intervenga.
E’ interessante segnalare come proprio nelle poetiche della neoavanguardia le statue, i reperti, i frammenti sopravvivano; da Yves Klein a Shozo Shimamoto, a Paolini, a Michelangelo Pistoletto, dislocati e metamorfizzati, per così dire cambiati di segno, continuano la loro vita, a testimoniare, come hanno insegnato i formalisti russi, che quelle forme non hanno perduto la loro potenza evocativa.
Ma più in generale, nel contemporaneo, gli originali che vengono presi in prestito appaiono raddoppiati, come riflessi in uno specchio (Sherrie Levine, Elaine Sturtevant, Mike Bidlo), oppure attraversati (Gerahrd Richter, Arnulf Rainer, Bertrand Lavier, Stefano Arienti, Ahmet Ogut), oppure dislocati (Luigi Ontani, Vik Muniz, Jeff Wall, Louise Lawler) o mediati e ricollocati in altro contesto (Vettor Pisani, Sam Taylor-Wood, Cildo Meireles, Mauricio Lupini), solo per citare alcuni esempi.
Tra ripetizione e differenza ci si interroga sullo statuto dell’autore e sul principio di invenzione.
L’apparizione della citazione nel corpus dell’opera d’arte contemporanea, usata sia come frammento (una citazione all’interno dell’opera), sia come immagine unitaria (l’intera opera è una citazione), interrompe infatti l’abituale orizzonte di attesa, il “corso della rappresentazione”.
La citazione, definita da Didi-Huberman “immagine-sintomo”, è pensabile in quanto l’arte è fatta di sopravvivenze e di eterni ritorni: “Che cos’è un sintomo se non giustappunto la strana congiunzione della differenza e della ripetizione? (…)  L’attenzione al ripetitivo e ai ritmi sempre imprevedibili delle sue manifestazioni – il sintomo come gioco non cronologico di latenze e di crisi -, ecco forse la giustificazione più semplice del necessario ingresso dell’anacronismo tra i modelli di tempo che lo storico può impiegare”, scrive lo studioso.3
Quando gli artisti guardano fuori di sé, quando dialogano con un’altra opera, anche quando se ne appropriano fino quasi al “plagio” (come fa Sherrie Levine), là dove le motivazioni sono differenti, sopravvive sempre il principio di invenzione.
Un’invenzione che sta in primis  in quel varco temporale, in quella terra di nessuno costituita dall’incontro, in quell’attimo non riproducibile che segna un’improvvisa (quanto forse inattesa) vicinanza.
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A. Malraux, Il Museo dei Musei, Mondadori, Milano 1994, p. 45 (I Paris 1951).
M. Foucault, Che cos’è un autore?, in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 2004 pp. 15-16 (I, Paris 1994). Il saggio Che cos’è un autore è la trascrizione di una conferenza tenuta dall’autore il 22 febbraio 1969 al Collège de France.
G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, (trad. it. di S. Chiodi), Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 45 (I Paris 2000).
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Lucilla Meloni è docente di storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Carrara, che attualmente dirige. Tra i volumi pubblicati: L’opera partecipata. L’osservatore tra contemplazione e azione (Rubbettino, 2000); Gli ambienti del Gruppo T. Arte immersiva e interattiva (Silvana Editoriale 2004); Gruppo N (Silvana Editoriale 2009).  Tra le mostre, ha curato Gli ambienti del Gruppo T. Le origini dell’arte interattiva, G.NA.M, Roma 2005; L’immagine come controinformazione, PAN, Napoli 2009; Gianni Dessì: Vis-à-Vis, Palazzo Binelli,  Accademia di Belle Arti, Carrara 2012.