§Fascismi
Divorare Roma: Pensar cannibale con AMOЯ di Salvo Lombardo
di Lara Barzon

Nel 2021 debuttava al MilanOltre Festival AMOЯ, performance di danza contemporanea diretta da Salvo Lombardo con e per i danzatori e le danzatrici delle compagnie Chiasma e Fattoria Vittadini. AMOЯ è un’indagine sul Potere, sui suoi effetti micro-politici, e sul legame del potere con una certa storia, cultura, identità. AMOЯ è ROMA che si guarda allo specchio. La storia, la cultura e l’identità sono quelle di Roma. O meglio, di una certa Roma: idealizzata, strumentalizzata, mitizzata, selezionata. Non è Lombardo a inventarsi tale relazione speculare, ma Luigi Manzotti. Nel 1886 nasceva per sua mano Amor, gran ballo articolato in una serie di quadri storici: dal caos primordiale fino al trionfo di Giulio Cesare, per concludersi nella glorificazione delle battaglie risorgimentali che portarono all’Unità d’Italia. L’amore evocato è identitario, verticale, eroico: una pulsione civilizzatrice che esalta Roma come simbolo di potere, conquista e patriottismo. Un amore che, pochi decenni più tardi, sarà fascista. 

AMOЯ di Lombardo scava nelle strutture, nei gesti e nei dispositivi che mantengono attiva l’eredità di quell’amore ottocentesco. Il sipario si apre su uno spazio spoglio, dai toni chiari che evocano il classicismo romano, così come i costumi dei sette performers. Entra il danzatore Cesare Benedetti: con fare borghese percorre il palcoscenico osservando con un binocolo quadri inesistenti. 

Foto credits: Carolina Farina

Intanto, una voce fuori campo interroga la natura del potere. A emergere è una frase: Homo homini lupus che riassume la visione di un’umanità intrinsecamente conflittuale, da cui deriva la necessità di uno Stato coercitivo in grado di garantire ordine e sicurezza. Si stabilisce così una connessione tra arte, potere, borghesia, stato, romanità. 

Si apre poi l’azione scenica. I performer si muovono all’interno di un quadrato di luce al neon che suggerisce un confinamento. I loro gesti mescolano boxe e teatro-danza, in una coreografia frammentata, collettiva ma individuale che richiama la ripetizione di un allenamento. Successivamente, un danzatore nudo entra portando con sé un nastro rosso con cui il resto dei performer delimita una porzione di scena. Evocando l’immaginario del museo, la scena suggerisce che l’arte è strumento istituzionale del potere. 

Nella seconda metà dello spettacolo prende il centro dello scenario una colonna in stile romano che funge da schermo per proiezioni video e testuali. Tra queste, la celebre frase incisa sul Palazzo della Civiltà Italiana — “Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori” — ritorna come eco di una narrazione nazionale ed eurocentrica da problematizzare. Poi, un dipinto raffigurante un corpo nero visibilizza i corpi che il Potere calpesta, sfrutta, annienta. Corpi scomodi ma strutturali per il mantenimento delle colonne della civiltà occidentale. Davanti a quella figura la danza si arresta. Ritorna la voce fuori campo a metterci in guardia su ciò che si cela dietro quelle colonne: una storia fatta di «tradizioni e strutture immobili, genealogie e presunte discendenze, figure secolari, conservazioni e restauri» [1]. Il tessuto visivo e sonoro fa continuo riferimento all’Impero Romano citandone i simboli che il fascismo storico aveva recuperato a supporto di un potere autoritario ereditato da un passato glorioso: l’aquila, lo stile architettonico, la morte di Cesare.

Alla luce di ciò, la voce fuori campo propone una diversa prospettiva sul potere: se all’inizio era il lupo la minaccia da domare, ora è la costruzione del potere da parte dell’uomo stesso a rappresentare il pericolo: homo homini homo. Il “Cesare borghese” cade a terra e tre danzatrici si srotolano dal petto un nastro rosso che copre il seno. Lo stesso gesto viene ripreso in un video proiettato all’interno della colonna romana: una delle danzatrici, a petto nudo e con il volto nascosto, si fascia la mano con quella stessa benda rossa, come a proteggerla dai colpi che sta per infliggere. Così si conclude la performance, con un preludio a una rivolta che insinua la necessità di lottare per l’abbattimento delle colonne del potere, del canone, dell’ordine. 

La tensione tra homo homini lupus e homo homini homo è al centro della riflessione sul potere e fascismo che sviluppo in questo articolo con e attraverso AMOЯ servendomi della potenza eversiva dell’archetipo del cannibale. Storicamente costruita come radicale alterità e accostata al lupus per legittimare violenza e dominio, la figura del cannibale è oggi riattivata come strategia critica contro le genealogie di potere colonial-capitaliste, di cui il fascismo è una delle espressioni più trasparenti. Mi soffermo su uno snodo cruciale nel discorso nazional-fascista oggi ripreso dalle politiche educative del governo Meloni: la mitologia di Roma e l’uso della cultura come dispositivo per la costruzione identitaria. L’AMOЯ di Lombardo opera, infatti, un capovolgimento che è cruciale per ribellarsi alle nuove politiche educative disciplinanti: Roma diventa un feticcio da cannibalizzare, una forma di potere interiorizzata che agisce con e attraverso i corpi e le narrazioni dominanti da frantumare a morsi. 

Back to the Future: quale passato per quale futuro?

Amor di Manzotti [2] fungeva da dispositivo spettacolare monumentale, in perfetta sintonia con le strategie degli Stati-nazione europei dell’epoca. Con scenografie colossali e centinaia di interpreti, queste produzioni incarnavano quella che Mark Franko descrive come «la pietra di paragone in termini coreografici dell’identità nazionale» (Franko 2007, p. 7): uno spettacolo atto a disciplinare i corpi secondo codici di razza, genere e classe, forgiando soggettività moderne e coese attorno a un’identità nazionale omogenea, al contempo legittimando l’espansione coloniale attraverso immagini glorificanti di progresso e civiltà.

Sebbene Mussolini proclamasse il fascismo come una svolta anticapitalista e antimoderna, in opposizione all’individualismo liberale e in nome di folklore e tradizione (Mussolini 1935), esso rappresenta in realtà la prosecuzione delle retoriche che hanno sostenuto la nascita dell’Italia come nazione moderna e occidentale. Il capitalismo in quanto struttura del sociale, più che antitesi, è parte integrante di questo progetto: una macchina di disciplinamento dei corpi a fini (re)produttivi, che espropria la loro sovranità per consegnarla a Stato e mercato. Fascismo e capitalismo condividono così la logica di gerarchizzazione basata su classe, genere e razza.

L’opposizione tra modernità e tradizione si rivela allora una costruzione ideologica, funzionale a occultare la capacità della modernità di riattivare selettivamente la tradizione per finalità di controllo e legittimazione, un tratto distintivo del progetto mussoliniano. Il fascismo si appropria dell’eredità romana per fondare un’identità italiana coesa e rivendicare il diritto a una rinnovata dimensione imperiale. Una missione non solo geografica, ma anche «spirituale o morale» (Mussolini 1935, p. 13), che trasforma il fascismo in disciplina: un progetto culturale, educativo e politico volto a plasmare il cittadino italiano. In tal senso, esso prosegue idealmente il «processo di soggettivazione» (Pipicelli 2023, p. 156) avviato dall’Amor manzottiano.

Con questa consapevolezza va analizzata l’attuale riforma scolastica. Le Nuove Indicazioni 2025 [3] ci catapultano nuovamente in un progetto disciplinante che rappresenta «una volontà di cambiamento radicale delle finalità della scuola pubblica» (Tarozzi 2024, II). Attualmente mirata alla formazione dell’«essere umano planetario» e «integrale» (Ib.), dal 2026 la scuola pubblica italiana educherà all’Italianità e al canone morale-spirituale che ciò comporta. Punto cardine è la definizione dell’identità italiana come il frutto di una storia condivisa incentrata sulle esperienze storiche “che ci hanno dato i grandi valori dell’Occidente” [4]. Il ministro Valditara definisce tale operazione “Back to the Future”: una celebrazione dell’antichità in chiave moderna come mito d’azione per il futuro. Peccato che tale storia sia costruita secondo un processo di selezione strumentale che ci vorrebbe eredi legittimi di (una certa versione di) Greci, Romani e Cristianesimo. Una storia, come ci dice la voce fuori campo di AMOЯ, «scritta a immagine di un qualche signore, un dominus, sempre seduto in cima, proprio come Dio nel cielo, Mose sul Sinai, gli dèi greci sull’olimpo, Gesù sul monte degli ulivi, i colonizzatori al di sopra dei nativi, il bianco al di sopra dello scuro» [5].

Fondamentale è la formazione di un Sé psicologicamente collocato «in un punto preciso del mondo e da quel punto di vista iniziare a guardare l’altro, il ‘resto’ geografico del pianeta» (Perla in Galli della Loggia & Perla 2023, p. 61). Il passato, filtrato e idealizzato, viene così impiegato come strumento di ri-educazione nazionale e normalizzazione culturale, funzionale alla costruzione di un’identità forte e coesa, depurata da conflitti, differenze e contraddizioni. Senza negare apertamente il passato coloniale o fascista, lo riabilita simbolicamente, reintroducendo valori come patria, autorità, spiritualità e famiglia come universali in linea con quel “fascismo eterno” che, secondo Umberto Eco (1995), sopravvive proprio attraverso queste forme di estetizzazione del potere.

Inoltre, le nuove indicazioni ministeriali propongono di smentire «ogni sopravvalutazione degli elementi economici e strutturali» (Nuove Indicazioni 2025, p. 76) a favore dei «valori culturali (tra cui principale è quello religioso)» (Ib.). Abbiamo quindi una depoliticizzazione che porta a percepire la storia come un giustificante dell’adesione a un «canone italiano-occidentale» (Perla in Galli della Loggia & Perla 2023, p. 77). Una visione culturalista e moralizzante, che naturalizza valori gerarchizzanti e oppressivi, occultando le dinamiche di potere che determinano quali eredità culturali sopravvivono e si impongono.

AMOЯ tra uomini e lupi.  

Per sopravvivere a tale ondata ideologica, oggi più che mai è cruciale riflettere con AMOЯ su come sovvertire il sistema di valori, ideologie e simboli che ci rende eredi di questa Storia. È urgente politicizzarla, svelare il ruolo dell’immaginario nella costruzione del potere, riconoscendone le origini per decostruirne le narrative incorporate. Capovolgendo Amor, AMOЯ capovolge il ruolo dell’arte: non offre risposte, ma scava nei meccanismi di potere che rendono identità e cultura strumenti disciplinanti. Emblematica è la scena in cui i performers entrano ed escono dal palco, si incontrano, si perquisiscono, ripetono sequenze coreografiche ispirate al vocabolario della boxe, per poi immobilizzarsi, al contatto, in tableaux che evocano dominazioni sessuali. Il paesaggio sonoro rafforza questa tensione: il ronzio degli elicotteri ci colloca in un’atmosfera di sorveglianza costante, mentre il grido di un’aquila richiama simbolicamente sia l’Impero Romano che l’iconografia fascista. Lombardo sovverte così la celebrazione di Roma/Amor, trasformando l’esaltazione dei simboli della grandezza nazionale in un dispositivo che ne interroga gli effetti: eredità che si inscrivono nei corpi sotto forma di controllo, sorveglianza e dominazione. Un potere che garantisce la sicurezza di alcuni a scapito della vulnerabilità di altri. 

Le riflessioni sul potere elaborata dalle voci fuori campo che attraversano la performance ci svelano che è nello scarto tra “alcuni” e “altri” che il potere si costituisce. Si tratta di una rilettura del Dialogo sul potere di Carl Schmitt (1990), politologo tedesco e riferimento ideologico del nazionalsocialismo, che guida l’ascoltatore in una trasformazione dall’homo homini lupus all’homo homini homo. Schmitt era consapevole che la possibilità del nazismo (e del fascismo) affondava le sue basi nella forma stessa dello Stato moderno: lo Stato-Leviatano teorizzato da Thomas Hobbes. Egli osserva infatti che l’affermazione del potere sociale implica un dispositivo che “attraverso il consenso umano ottiene successo e proprio nel momento in cui è, trascende ogni consenso umano” (Schmitt 1990). In questa logica, ciò che conta è la capacità del potere di farsi struttura e di generare consenso e obbedienza, imposti o interiorizzati.

Come osserva Mario Cámara, la teoria del contratto sociale elaborata da Hobbes nel XVII secolo mira a risolvere lo stato di violenza naturale dell’essere umano dominato da passioni e desideri. L’uomo, abbandonato a sé stesso, diventa lupo per l’altro uomo. Solo una forza sovrana può garantire ordine e protezione. Così lo Stato fonda la legittimità del potere occidentale. Per capirne i meccanismi di potere che ne derivano, tale processo deve essere interrogato ampliando lo sguardo al di fuori dei confini Italo-occidentali. Non è un caso che la costruzione hobbesiana dell’”uomo lupo per l’altro uomo” emerga nel cuore del progetto moderno europeo, in un momento storico in cui l’espansione coloniale stava già ridisegnando i confini tra umano e non-umano, tra soggetto e oggetto di diritto. È dunque cruciale riconoscere che la nascita degli stati Europei moderni e il progetto coloniale si costituiscono a vicenda, costruendo identità e legittimando gerarchie attraverso una retorica della violenza istituzionalizzata.

In questo quadro, la figura del cannibale acquista una centralità strategica in quanto costruita come l’alterità assoluta (vedi Jáuregui 2008). Storicamente rappresentato come simbolo dell’umano degradato, disumanizzato e da civilizzare, il cannibale si configura come strumento ideologico attraverso cui giustificare conquista, conversione e assoggettamento. Come mostra Cámara, Hobbes, scegliendo l’espressione homo homini lupus per descrivere lo stato di guerra naturale, animalizza l’essere umano trasformandolo in predatore e associandolo «in modo inquietante, all’immagine di un soggetto antropofago» (Cámara 2013, p. 22): una proiezione coloniale dell’altro funzionale a rafforzare l’identità del soggetto europeo come razionale, civile, moderno.

Eppure, Silvia Federici (2010) dimostra che lo scandalo del cannibalismo non è il frutto di uno scontro tra civiltà (pratiche cannibali avvenivano anche in Europa, per esempio in medicina), ma della transizione alla logica produttiva capitalista che necessitava di un mondo popolato da corpi docili, gerarchizzati, funzionali al nuovo ordine economico e simbolico, in Europa e nelle Americhe. In entrambi i continenti, la caccia a streghe e cannibali è affiancata dalla privatizzazione della terra, lo smantellamento delle forme di vita collettiva, la demonizzazione dei saperi “selvaggi” e la disciplina sistematica dei corpi, soprattutto poveri, femminili, indigeni, africani. 

Propongo dunque di riattivare la figura del cannibale come archetipo teorico-politico (vedi Mattei Pawliw 2022) capace di disarmare le genealogie del potere coloniale-capitalista decostruendone le fondamenta. Riappropriarsi dell’appetito significa decanonizzare la modernità, aprire spazi teorici ed esistenziali in cui il potere non sia più inteso come macchina di contenimento e controllo, ma come campo di relazioni interdipendenti, trasformative, incarnate. Così facendo, metto in crisi l’opposizione identità/alterità su cui si regge l’immaginario nazionalista della riforma scolastica. Là dove l’Occidente si definisce per opposizione, configurandosi come spazio di autocontrollo, smentisco l’alterità del cannibale e invito a riappropriarsene in quanto soggetti europei per creare alleanze in quella che Eugenia Mattei Pawliw definisce «una lotta su come concepire e abitare il mondo» (2022, p. 120). 

Che la lotta è ancora in atto lo conferma Loredana Perla quando sostiene la necessità di rileggere Pinocchio a scuola offrendone un’interpretazione ben precisa: «Il percorso di ‘umanizzazione’ del burattino, a ben guardare, era un cammino di civiltà di un Paese, l’Italia» (Perla in Galli della Loggia & Perla 2023, p. 105). Un’umanizzazione che, come nota poco più avanti, si oppone all’«animalizzazione» (p. 106) – la trasformazione in ciuchino – che rappresenta la caduta negli inferi. La civiltà vs i cannibali. La forza vitale del corpo vs la società borghese, l’obbedienza, l’igiene sociale. Tutti prerequisiti, come sostiene Hannah Arendt (2009), per il successo del dominio totalitario. La sottrazione di sovranità ai corpi, trasferita allo Stato-Leviatano, è il cuore di ciò che oggi riconosciamo nei suoi sviluppi più estremi: i genocidi coloniali, il controllo biopolitico, il fascismo. È in questo passaggio che si radica la normalizzazione della violenza istituzionale. Homo homini homo

AMOЯ mette in crisi l’inevitabilità di questa struttura. La sequenza finale istiga esplicitamente alla rivolta suggerendo che la trasformazione del potere necessita di un atto violento. In un duplice rovesciamento simbolico del diritto alla violenza, a innescare la ribellione sono tre donne: l’umano che si oppone alla Storia, il femminile che insorge contro l’autorità maschile. In questo gesto, la violenza viene sottratta al monopolio statale che la esercita e insieme la occulta per essere reclamata come forma di agenzia soggettiva. 

Cannibalizzando l’Amor per Roma 

Concettualizzando AMOЯ come cannibalizzazione di Amor, rivendico l’appetito del cannibale come dispositivo critico non solo nei confronti del fascismo contemporaneo, ma del sistema che rende il fascismo una possibilità latente. La mia proposta trae ispirazione dal movimento antropofagico brasiliano (vedi De Andrade 1928; Costa 1928), che nel 1928 riabilita il cannibalismo come gesto politico e metodo estetico: una digestione critica delle forme culturali egemoniche euro-nordamericane per riconfigurarle da una prospettiva situata, ribaltando il meccanismo stesso dell’appropriazione. Con il movimento antropofagico il cannibale si fa forza epistemologica capace di sovvertire le dicotomie civilizzazione/barbarie, soggetto/oggetto, umano/animale che costituiscono l’impalcatura coloniale della modernità. Siamo moderni e cannibali. 

Più recentemente, il lavoro di Eduardo Viveiros de Castro (2010) riconosce il sistema di pensiero che sostiene le pratiche cannibali della popolazione Amerindia Tupí come una metafisica globalmente valida per decolonizzare retoriche di identità e confini. L’atto cannibale è una trasformazione del Sé attraverso l’incorporazione dell’Altro. Il Sé cannibale si costituisce come relazione dinamica, costruzione porosa nutrita dall’alterità. L’incontro con l’altro diventa occasione per moltiplicare le possibilità dell’essere. I confini non scompaiono, ma si densificano. 

Intrecciando i due filoni critici, mi chiedo cosa comporta immaginare AMOЯ come una cannibalizzazione dell’immaginario contenuto in Amor e delle sue eredità nel presente. A livello simbolico, avviene una riappropriazione della sovranità dei corpi. Desideranti, affamati, in movimento. Potenti. In linea con la metafisica cannibale, Amor è divorato da Lombardo e dai performers in quanto “Altro” ai fini di riattivarne la forza politica e immaginativa: non più al servizio dello Stato (e quindi, della nazione, del fascismo, dell’Italianità), ma dell’umanità. AMOЯ cannibalizza il patrimonio estetico e retorico su cui la nazione italiana ha costruito la propria romanità, trasformandolo in un dispositivo di destabilizzazione.

Foto credits: Daniele Spanò

Come avveniva per il movimento antropofagico brasiliano, non si tratta di un rifiuto, ma di una digestione critica: i performer non fuggono di fronte al simbolismo romano-fascista, ma ne elaborano gli effetti sul proprio corpo decidendo cosa trattenere e cosa espellere. Per questo la scena è popolata da simboli che, pur restando riconoscibili, assumono significati ambigui e rinnovati, frutto di un processo di masticazione che li disintegra e li riassembla con elementi appartenenti all’esperienza viva di Lombardo e dei performers. Emblematica è la citazione delle iscrizioni del Palazzo della Civiltà Italiana all’interno della colonna romana: le parole restano immutate, ma il loro potere cambia. I performer si aggirano tra le scritte, le osservano, vi accostano gesti che evocano la boxe o restano immobili di fronte ad esse. Ne scaturisce una sospensione del significato originario, una frattura semantica attivata dal dispositivo cannibale: il processo di masticazione smantella qualsiasi narrazione monolitica. Gli elementi si frantumano, si mescolano con la saliva, perdono la loro funzione disciplinante e si aprono a riconfigurazioni inedite. 

L’accostamento di immagini, suoni, testi e gesti produce una narrativa stratificata che fa emergere dinamiche di potere interne ed esterne alla nazione: disciplinamento dei corpi interni (bianchi e italiani) ma al contempo privilegio rispetto all’Altro esterno. Come precedentemente descritto, durante la prima parte i performers sono intrappolati in ripetizione di gesti e configurazioni collettive che li incastrano in un sistema binario dominatore/dominato. Ad interrompere queste dinamiche è l’apparizione dell’immagine del corpo nero all’interno della colonna. 

Foto credits: Carolina Farina

Qual è la relazione fra quell’immagine, i performer – tutti bianchi, italiani – e un pubblico anch’esso prevalentemente bianco e comodamente seduto in un teatro all’italiana? Cosa fare del privilegio? Come relazionarsi all’Altro senza ricadere in posture salvifiche o paternalistiche? 

La metafisica cannibale ci invita ad attivare nell’incontro con l’altro un processo trasformativo che ridefinisce la propria umanità. L’incontro con quel corpo spinge i performer a interrompere l’ossessiva ripetizione coreografica che, nella prima parte dello spettacolo, agiva come un “apparato di cattura” (Lepecki 2007), un dispositivo di controllo del movimento e della soggettività. Non si tratta di aprire i confini per includere l’Altro in un sistema dato, né di compatirlo. L’incontro funge da leva epistemica e politica per disarticolare le logiche del dominio che portano alla propria disumanizzazione. È una possibilità di reinvenzione del sé, di riarticolazione del reale. Per questo, bisogna abbattere Cesare, togliersi le fasce che comprimono il petto e trasformarle in strumenti di lotta. L’assenza del volto della donna che si fascia la mano nel video conclusivo suggerisce che la ribellione non è questione di identità, ma di corpi che si sottraggono al proprio disciplinamento, che si fanno materia viva di un dissenso incarnato.

Pensieri conclusivi 

L’arte, così come la teoria, non risolvono nulla, ma è fondamentale riconoscerne la portata politica in quanto pratiche che ridefiniscono modi di stare al mondo e generano possibilità. Nel divorare AMOЯ, ho cercato di creare un’alleanza per aprire crepe, e produrre non una nuova teoria, ma un terreno instabile, fertile, da inventare insieme. Riconoscerci cannibali per riconoscerci corpi – fragili, relazionali, interdipendenti – e superare i binarismi disumanizzanti che da almeno cinque secoli giustificano la violenza a partire dall’opposizione gerarchizzata tra identità e alterità. AMOЯ si confronta direttamente con ciò che rende il fascismo possibile, perché il fascismo è, in ultima istanza, un’operazione di disumanizzazione. E se è certo che l’arte non risolvere nulla, è proprio per questo che è necessaria. Non si tratta di risolvere, ma di reinventare il modo di abitare il mondo che ci ritroviamo, con le sue strutture che, per quanto ci vengano raccontate come immutabili, non lo sono mai. Con l’arte, con il pensiero, con la teoria, con l’attivismo, con la pratica quotidiana, con la lotta, possiamo mettere il dito nella piaga. Possiamo ricordare che l’umanità – nella sua complessità, nella sua fame, nel suo desiderio di connessione – è sempre più forte dello schifo del sistema.

Note 

[1] Voce femminile fuori campo, citazione da AMOЯ, min. 0.47.
[2] È importante contestualizzare Amor come il secondo spettacolo di una trilogia composta da Gran Ballo Excelsior (1881), Amor (1886) e Sport (1887), con i quali condivide l’intento di produzione identitaria della neonata Italia.
[3] La riforma, voluta dal Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara entrerà in vigore nel 2026. È possibile consultare i materiali per il dibattito pubblico al seguente link
[4] Valditara Giuseppe in “Indicazioni Nazionali/2. Valditara: non serve studiare i dinosauri. Cosa dovrebbe cambiare?” Tuttoscuola, Maggio 13, 2024.
[5] Voce fuori campo, AMOЯ, min. 0.47

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Lara Barzon è dottoranda in performance studies (University of Warwick) e cultural studies (University of Ljubljana), vincitrice della borsa di studio internazionale EUTOPIA PhD co-tutelle programme con un progetto di ricerca su estetiche e politiche decoloniali in danza contemporanea. Inoltre, è attualmente ricercatrice ospite presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Complutense di Madrid. Teoria e pratica si intrecciano sia nella sua formazione che nella sua carriera professionale. Ha conseguito un master in Studi Teatrali (Università di Torino), un diploma in Teatro Fisico (Philip Radice Atelier, Torino) ed è certificata in danza contemporanea (compagnia DEOS, Genova) e in curatela d’arte contemporanea (Opera Estate Festival, Bassano del Grappa). È cofondatrice del collettivo transnazionale di performance Istmo Nomade, con cui sviluppa la sua pratica artistica tra Europa e America Latina, e ha collaborato a progetti di ricerca come Precarious Movements: Choreography and the museum (UNSW) e CARTEMAD (Università Complutense di Madrid). Lara ha anche collaborato in diversi ruoli con istituzioni come la Biennale di Venezia e l’Istituto Italiano di Cultura di Montevideo e lavora come assistente alla ricerca per il progetto Thinking through the Silk Roads. Cross-Cultural exchanges and mobilities.