Vuoto apparente
I nuovi vuoti
di Roberta Riccio

«Il vuoto è accoglienza. In particolare il vuoto della scultura è singolare in quanto si distingue per essere accoglienza del vuoto stesso. Questo vuoto è un vuoto immateriale, ovvero l’opera d’arte contiene pensieri e idee che essendo immateriali, non riempiono mai materialmente la scultura».1

 

Accoglie gli oggetti che lo vivono, le persone con i loro pensieri, nutre continuamente nuove forme di creatività e dà la possibilità a chi non ne ha, di percorrere il proprio spazio delimitandolo, trasformandolo o condividendolo. Il vuoto -come una costante doverosa e necessaria- porge a tutti gli esseri viventi un invito all’occupazione. Come il gabbiano Jonathan Livingston -litigando con la madre- si batteva per la sua libertà e la sua voglia di conoscere racchiusa nell’aria, sostenendo a gran voce che «Non m’importa se sono penne e ossa, mamma. A me importa soltanto imparare che cosa si può fare su per aria, e cosa no: ecco tutto. A me preme soltanto di sapere»2. Così il discepolo Fletch Lynd, subito dopo la scomparsa di Jonathan, ripensando alle ultime parole condivise con il maestro «[…] povero Fletch. Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda con il tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola»3, continuò ad insegnare ai suoi discepoli l’arte di volare e di non fermarsi al primo cedimento del corpo e alle prime apparenze ingannevoli, sottolineando che la libertà e la conoscenza possono essere apprese soltanto ad occhi chiusi, assaporando l’immenso valore del nulla. Un vuoto che palesa le sue ricchezze a chi –come la volpe (del Piccolo Principe) dagli occhi incontaminati dall’evidenza- percepisce in realtà che «l’essenziale è invisibile agli occhi»4. Sembra dunque, che lo sguardo sia fondamentale per capire la vera essenza del vuoto. E che le cose in fondo, non dovrebbero essere accettate così per come appaiono, ma guardate ad occhi chiusi, per incoraggiare tutto il corpo a filtrare le informazioni circostanti e sperimentare la realtà dello spazio e delle cose, cercando di sopprimere «le condizioni oggettive che mantengono l’alienazione»5. Un’alienazione corporale costante che affida la sua percezione ad uno dei cinque sensi, forse quello più distratto quando si parla di vuoto o di invisibilità. La mente dunque dovrebbe aiutare il proprio corpo e i suoi occhi a capire che in fondo «non importa tanto ciò che è già, quanto ciò che non è ancora»6, ma che potrebbe essere, se soltanto ogni individuo accogliesse dentro di sé alcune caratteristiche appartenenti al vuoto come la creatività e l’insensatezza. Caratteristiche che nascono proprio dalla libertà del pensiero. Una libertà che cambia drasticamente il rapporto che l’individuo ha con la realtà scontata e la percezione dello spazio e degli oggetti. Scandagliando una stanza che sia vuota o sia arredata, «il nostro sguardo percorre lo spazio e ci dà l’illusione del rilievo e della distanza. È proprio così che costruiamo lo spazio» ci suggerisce lo scrittore francese Georges Perec, «con un alto e un basso, una sinistra e una destra, un davanti e un dietro, un vicino e un lontano», ma «quando niente arresta il nostro sguardo, il nostro sguardo va molto lontano»7. Persino gli oggetti inseriti all’interno di una stanza vengono relazionati con lo spazio circostante e la realtà che gli si propone. Infatti le cose subiscono un annullamento, amalgamandosi al contesto. Lo stesso contesto cambia, il colpo d’occhio fa sì che tutto risulti diverso e il vuoto non appaia più così attraente agli occhi di chi, in quello stesso vuoto, vedeva infiniti modi di appropriazione, di riflessione -intesa come riflessione di se stessi all’interno dello spazio- e di manipolazione. Improvvisamente «l’essenza delle cose è quindi intesa come qualcosa di dinamico, punto di contraddizioni e di relazioni molteplici con ciò che lo circonda, qualcosa che deve annullarsi e risolversi da solo per raggiungere la sua forma autentica di esistenza che ora le vien negata»8. Ad esempio, quando una persona si trova sola a trascorrere del tempo in una stanza vuota, generalmente tenta di portare con sé un oggetto che esorcizzi quel vuoto e la mantenga legata al mondo familiare che sta fuori, alla sua cultura, alle sue abitudini, al suo passato e al suo presente, imponendo al vuoto dei confini mentali di appartenenza molto rigidi e delineati, definendo un recinto d’azione nel quale l’individuo è ben caratterizzato ed il vuoto è solo vuoto. Basterebbe invece chiudere gli occhi, stendersi a terra, allargare le braccia e accogliere ciò che il vuoto ha da offrire, quasi sempre solo se stessi e i propri pensieri disordinati, per i quali a volte non si trova mai spazio. La scultura ad esempio, è un’espressione artistica che tende a costruire dei confini rigidi con il vuoto -proprio attraverso la sua presenza fisica e la scelta materica dello scultore- dimenticando a volte che giocare con lo spazio vuoto invece, permette una profonda comprensione dell’opera e un’importante interazione con il pubblico presente. Il critico d’arte Achille Bonito Oliva, proprio parlando della scultura, sostiene che «la scultura, per definizione, tende a recintare lo spazio nei confini di un’immagine tridimensionale che rasenta la realtà esterna mediante la pelle dei suoi materiali. Il procedimento del recinto serve a delimitare lo spazio interno come un vuoto chiaramente percepibile da esorcizzare mediante l’ornamento della materia che lo comprime e lo controlla», ma continua sottolineando che esiste anche un’altra tipologia di scultura «che non opera sulla compressione del vuoto mediante il pieno della materia ma agisce affinché esista una continuità tra i due versanti, un’osmosi capace di rapportare tutti i punti dello spazio nella ferma evidenza di una costruzione tridimensionale senza pause e continuamente agente»9. Questo accade quando la materia della scultura si lascia permeare dal vuoto, quando come una superficie porosa assorbe il caos attorno ad essa. Ma tutto ciò avviene anche nel momento in cui «l’artista si fa carico di descrivere il vuoto, escludendo qualsiasi altro soggetto di rappresentazione, come se fosse cosciente che una volta guardato il vuoto non si può più guardare nient’altro»10. E allora quella traccia evidente che l’artista lascia nello spazio nudo -con la sua presenza e quella dell’opera- può essere definita come una crepa nel vuoto, una divisione dello spazio compatto in più realtà. Lo spazio circostante la scultura, per esempio, accoglierà la breve occupazione degli interessati e sarà un vuoto elastico. Accoglierà con la sua ambiguità -non intesa con l’accezione negativa del termine, ma come una possibile duplice interpretazione- cose e persone, pensieri, riflessioni creative, parole masticate, ricordi e connessioni mentali. Tutto questo dunque, non suggerirà «una teoria del vuoto, ma un’esperienza del vuoto»11. E la stessa esperienza rimarrà nel vuoto, in quello spazio che precedentemente accoglieva l’individuo e che poi si è fatto custode della sua esperienza, dei suoi ricordi, seppur in parte. Poiché l’esperienza abita dentro di noi, ma risiede nel luogo di creazione. Non ci sarebbe il ricordo di un’esperienza senza un luogo dove viverla e una mente poi per rimembrarla. Lo storico e critico dell’arte Cesare Brandi teorizza appunto, che «nulla è segno in sé e per sé, senza una coscienza che assuma l’attitudine significante, senza una coscienza che lo istituisca come tale»12. Persino la crepa sul soffitto di “Un uomo che dorme” può improvvisamente diventare un segno sorprendente – se si presta attenzione ad essa- e potrebbe persino essere a nostri occhi di «esaminatore distratto»13 un micro vuoto della stanza, dove «una bestiolina nera, verosimilmente irreale, apre una breccia insospettata nel labirinto delle crepe sul soffitto»14. Una scoperta continua dunque, che parte dal vuoto, torna a noi e ritorna nel vuoto. Uno scambio continuo di accoglienza e di creatività. E se risulta impossibile separare ciò che vediamo da ciò che ci interessa, poiché «ciò che vediamo vale -e vive- ai nostri occhi unicamente per ciò che ci riguarda»15, potrebbe essere necessario interessarsi a ciò che non vediamo palesemente, ma viviamo con altri sensi. Un’opera d’arte si può vivere in molti modi, lo spettatore può toccarla -a volte- può sentirne l’odore e persino il sapore mangiandone un po’. Basta pensare alla piramide di caramelle (Untitled) dell’artista Félix González-Torres, per capire che il pubblico a volte diventa non solo un ingranaggio necessario al fine dell’opera stessa, ma che la presenza fisica delle persone riempie il vuoto circostante, anch’esso parte imprescindibile dell’opera. Un’altra artista che mette in connessione ciò che è drasticamente “reale” -dal latino res, oggetto fisico esistente- e ciò che nasce dal vuoto attorno alla cosa, è Rossella Biscotti. Intreccia pieno e vuoto per ri-intrecciare passato e presente. Le Teste in Oggetto ad esempio, è un’opera che nasce da uno dei suoi molti percorsi artistici di ricerca che esprimono il suo interesse non solo per la storia, l’archivio, ma anche per l’interazione che si instaura tra l’opera, l’artista, il territorio ed il pubblico. Un progetto che nasce negli Uffici dell’Eur a Roma, si sposta nella sede di Nomas Foundation nel 2009, per arrivare in altre spoglie al Museion di Bolzano nel 2015. Sono sezioni e calchi di teste in silicone e resina acrilica, ma non sono teste ignote, sono quelle di Benito Mussolini e del Re Vittorio Emanuele III. Scavando negli archivi degli Uffici dell’Eur, l’artista scopre queste cinque statue di bronzo raffiguranti i volti dei ben noti personaggi, scolpite da Domenico Rambelli e Giovanni Prini. All’incirca un metro di altezza ciascuna, posizionate su dei pallet, realizzate per l’Esposizione Universale del 1942 e mai mostrate al pubblico -a causa della guerra- queste enormi teste racchiudono in tutto il loro peso, una monumentalità e un rigore tipico dell’arte di regime.

Rossella Biscotti, Le Teste in Oggetto. Foto di Roberta Riccio

3 - Rossella Biscotti, L'avvenire non può che appartenere ai fantasmi

Rossella Biscotti, L’avvenire non può che appartenere ai fantasmi. Foto di Roberta Riccio

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L’artista decide così –per la mostra L’avvenire non può che appartenere ai fantasmi– di riproporre i calchi delle teste, ma sezionate. Un calco in negativo che deriva da un originale in positivo. Un continuo riferimento al passato, alla storia, che viene fuori ovviamente dai soggetti presi in esame, ma anche un collegamento necessario con il presente e lo stesso futuro, dato non solo dall’utilizzo di materiali contemporanei come la resina o il silicone, ma anche dal gesto di sezionare. «Le sculture in bronzo originali rappresentano il tempo storico, mentre i calchi in silicone colorato diventano una rilettura contemporanea attraverso la quale riattivare significati e prospettive critiche» sostiene Letizia Ragaglia –direttore di Museion- «La dimensione critica e decostruttiva del calco, sottolineata dalla frammentazione degli stessi, non lascia dunque spazio a riletture nostalgiche, ma, anzi, apre a nuove modalità di pensare il presente e il futuro»16. In mostra vengono esposte queste parti di cranio, volti a metà, sezioni orizzontali e verticali, che scandagliano il passato sotto una luce nuova, contemporanea. L’austero rigore delle statue originali, non sembra più appartenere all’opera della Biscotti. Non sono più monumentali, non sono più monumenti. Sono fragili -seppur ancora imponenti- cocci di un passato prezioso ma complesso che si lasciano esaminare ed interpretare inermi, nella grande sala gremita di persone. Persone che attraversano le sezioni, toccano il silicone azzurro, la resina bianca e si sporgono per osservare dentro, per trovare un simbolo, uno stemma nascosto. Si aprono così nuove prospettive, sia per l’artista che per il visitatore. Il vuoto che si crea dal calco, dall’usuale scarto, in realtà è un vuoto apparente. Proprio questa parte meno importante risulta essere la più interessante, purché rimanga così affascinante però, non deve essere colmata, se non dalle riflessioni delle persone attorno, i loro ricordi, i dubbi e i pensieri disordinati. Quel vuoto serve tanto all’opera in sé per esistere, quanto alle persone per poterla fruire in un nuovo modo. Un vuoto che rappresenta anche il processo creativo dell’artista che lo spettatore può solo immaginare. «Ripensando a Le Teste in Oggetto nella loro prima presentazione nel 2009 alla Nomas Foundation» racconta Rossella Biscotti, «a volte ho immaginato di ritagliare o cancellare le teste per osservare meglio quello che succedeva. Da questa immagine dello spazio con il vuoto generato dalla cancellazione credo che stranamente sia nata l’idea del calco e del negativo […] Per me non erano tanto importanti le sculture stesse quanto quello che ruotava loro intorno, lo spazio in cui erano esposte e il pubblico che ci girava intorno e discuteva. Le teste diventano un oggetto di discussione»17. Cambia così anche il modo di fruire della scultura. Rispetto a quella classica, le nuove sezioni della Biscotti, possono essere vissute non solo circolarmente, ma anche da fuori verso dentro, dall’alto verso il basso e viceversa. Lo sguardo riesce ad attraversare l’opera completamente, anche grazie al vuoto. Grazie a quello che non c’è. La visione meditativa del vuoto apre l’individuo all’accoglienza e all’arricchimento di una nuova esperienza, verso una spontanea ed istintiva creatività.
L’artista crea dal vuoto e nel vuoto, lo spettatore interagisce con l’opera e con lo spazio circostante, l’opera stessa vive anche grazie al vuoto e genera nuovi modi di percorrenza, di esperienza, creando così nuovi vuoti.
In un interessante dialogo tra l’artista Cesare Pietroiusti e Rossella Biscotti, il primo descrive Le Teste in Oggetto ripercorrendo la genesi delle sculture: «I calchi che tu realizzi sono il rovescio della statua che, essendo originariamente di bronzo, sarà stata preceduta, all’epoca della sua realizzazione, da stampi in gesso in cui il bronzo è stato colato. Il tuo è un passaggio ulteriore, che si allontana di un altro grado dalla testa vera, del vero Mussolini o dal vero Vittorio Emanuele III. Si allontana, ma torna anche indietro, al “negativo” della statua” e continua descrivendo l’ambiguità della scultura che si avvicina molto a quella -precedentemente citata- del vuoto, “la scultura e molta arte rappresentativa ha questa specie di percorso doppio: da una parte si allontana dalla realtà creando una copia, e al contempo ne produce un’altra. In mezzo vi è la dimensione del calco che è, appunto, un grado più vicino alla faccia reale […] Insomma il calco, come passaggio intermedio fra la persona e l’oggetto scultura, è più vicino al reale e però meno riconoscibile della sua rappresentazione»18. L’opera diventa oggetto di discussione, come ci suggerisce l’artista Biscotti, è il vuoto che gira attorno all’opera che permette il dialogo, consente alle persone di interagire e comunicare. E così l’arte -con le sue infinite espressioni- continua a creare nuovi spazi di pensiero, nuovi vuoti d’interazione. Per cui si potrebbe dire che, il vuoto in realtà non è vuoto, anche se appare tale. È una costante doverosa e necessaria all’occupazione dell’individuo e della propria creatività. Assomiglia ad un pensiero disordinato e quindi incredibilmente spontaneo ed irresistibile. Non si palesa soltanto per com’è, ma anche per quello che potrebbe essere. Uno spazio elastico, accogliente ed ingannevolmente vuoto. Per non concludere le riflessioni sul tema, bensì stimolarne sempre delle nuove, vanno citate le parole del filosofo Jacques Derrida, il quale rimette tutto in discussione, «devi cambiare linguaggio, e non cambiando parole; devi scrivere in maniera differente, altrimenti la filosofia, che è il nostro linguaggio, riontologizzerebbe molto velocemente il vuoto. Poi, a un certo punto, dovresti far cadere perfino la parola “vuoto”, perché il vuoto menzionato non è vuoto nel modo in cui noi comprendiamo il vuoto. C’è un qualche vuoto circondato da una linea che è indivisibile, un vuoto circoscritto. Perciò se il vuoto non è questo, allora probabilmente dobbiamo abbandonare il vuoto, o abbandonare la parola vuoto»19.

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1 A. Scardino, La scultura del vuoto, Lulu Press, 2005, p. 41.
2 R. Bach, Il Gabbiano Jonathan Livingston, RCS libri S.p.a. Milano, 1997, p.15.
3 Ivi, p.102.
4 A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano, 2003, p. 98.
5 C.Diaz, F. Garcia, Per una pedagogia libertaria, Edizione del CDA, Torino, 1977, p. 28.
6 Ivi, p. 28.
7 G. Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, p. 97.
8 C.Diaz, F. Garcia, Per una pedagogia libertaria, Edizione del CDA, Torino, 1977, p. 29.
9 A. Bonito Oliva, Il tallone di Achille. Sull’arte contemporanea, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 150.
10 A. Bonito Oliva, Preferirei di no. Cinque stanze tra arte e depressione, Electa, Milano, 1994, p. 131.
11 G. Pasqualotto, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia, 2004, p. 9.
12 C. Brandi, Teoria generale della critica, Einaudi, Torino, 1974, p. 27.
13 W. Benjamin, L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi,Torino, 2014, p. 46.
14 G. Perec, Un uomo che dorme, Quodlibet, Macerata, 2009, p. 77.
15 G. Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze, Fazi, Roma, 2008, p. 5.
16 L. Ragaglia, estratto dal catalogo realizzato per la mostra di Rossella Biscotti presso il Museion di Bolzano, a cura di Letizia Ragaglia, 2015, pp. 62-63.
17 R. Biscotti, estratto dal catalogo realizzato per la mostra di Rossella Biscotti presso il Museion di Bolzano, a cura di Letizia Ragaglia, 2015, p. 90.
18 C. Pietroiusti, estratto dal catalogo realizzato per la mostra di Rossella Biscotti presso il Museion di Bolzano, a cura di Letizia Ragaglia, 2015, p. 86.
19 J. Derrida, Adesso l’architettura, a cura di Francesco Vitale, Libri Scheiwiller, Milano, 2011, p. 281.

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Bibliografia:

Bach, R., 1997, Il Gabbiano Jonathan Livingston, RCS libri Milano, 1997.
Benjamin, W., L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi Torino, 2014.
Bonito Oliva, A., Il tallone di Achille. Sull’arte contemporanea, Feltrinelli Milano, 1988.
Bonito Oliva, A., Preferirei di no. Cinque stanze tra arte e depressione, Electa Milano, 1994.
Brandi, C., Teoria generale della critica, Einaudi Torino, 1974.
De Saint-Exupéry, A., Il piccolo principe, Bompiani Milano, 2003.
Derrida, J., Adesso l’architettura, a cura di Francesco Vitale, Libri Scheiwiller Milano, 2011.
Diaz, C., Garcia, F., Per una pedagogia libertaria, Edizione del CDA Torino, 1977.
Didi-Huberman, G., Il gioco delle evidenze, Fazi, Roma, 2008.
Pasqualotto, G., Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio Venezia, 2004.
Perec, G., Un uomo che dorme, Quodlibet Macerata, 2009.
Perec, G., Specie di spazi, Bollati Boringhieri Torino, 2013.
Ragaglia, L., a cura di, Catalogo realizzato per la mostra di Rossella Biscotti presso Museion di Bolzano, 2015
Scardino, A., La scultura del vuoto, Lulu Press, 2005.

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Roberta Riccio Interior Designer. Dopo la triennale in Interior Design presso lo IED (Istituto Europeo di Design) e un Master di I Livello nella Scuola Politecnica di Design di Milano, decide di inseguire la sua passione per il design e l’arte contemporanea, frequentando il Master di alta formazione in Curatore Museale e di Eventi Performativi.