Quale che sia l’idea intuitiva di “rumore” che ciascuno di noi possiede e coltiva, non vi sono dubbi circa la connotazione negativa del rumore come qualcosa di degradato (o degradante, qualora la sua valutazione si carichi di valenze etiche) che assume nel senso comune, connotazione che si manifesta nel confronto con quelli che del “rumore” sono i possibili contrari (rumore vs suono, rumore vs musica, rumore vs segnale, rumore vs silenzio), anche nel caso in cui il rumore sia oggetto di campagne di emancipazione e di recupero alle ragioni dell’arte e del “bello”. La presente riflessione pone l’accento su quello che, parafrasando un concetto schaferiano (Schafer, 1998, pp. 79-80), potremmo chiamare “rumore sconsacrato”, il quale scaturisce nel momento in cui il musicale e il sonoro confliggono con un’innovazione tecnologica dirompente. Prima di procedere è però doveroso dichiarare che il concetto di sacro intorno al quale ruota il nostro ragionamento non è affatto speculare a quello espresso da Schafer. Questi sembra infatti voler ricondurre il sacro alle simbologie sonore delle religioni strutturate, in cui il nesso primordiale fra divinità e manifestazioni acustiche udibili in vasti spazi verrebbe perpetuato attraverso l’emissione (solo per limitarsi al cristianesimo) di segnali quali le campane e l’organo a canne, la cui imponenza sarebbe rappresentazione sensibile della tirannica brutalità del potere esercitato dalla Chiesa, unica depositaria del controllo di tali mezzi sonori. Non è questa la sede per discutere tale assunto, non privo di forzature. Qui ci limiteremo a precisare che nel nostro uso del termine “sconsacrato” riecheggia il suo significato più comune, che è riferito alle chiese che hanno perso la loro funzione e nelle quali, di conseguenza, non è più possibile udire la voce del divino nella sua individualità carica di intenzioni. Sconsacrato è dunque il relitto di qualcosa che aveva un significato che è andato perduto.
Qui prenderemo in esame tre di quelle che abbiamo chiamato innovazioni dirompenti (l’elettrificazione tardo-ottocentesca, la virtualizzazione degli strumenti musicali tardo-novecentesca e l’intelligenza artificiale con il suo corredo di apprensioni e anatemi) e cercheremo di mostrare come in tutti e tre i casi si verifica, quasi per una sorta di reazione chimica prevedibile e inevitabile, una perdita di agentività (individualità carica di intenzioni) che ha per conseguenze la proliferazione e la svalutazione (tanto estetica quanto informativa, tanto in relazione al suono quanto in relazione al segnale) di presenze sonore senza agentività (e per questo “sconsacrate”) e destinate a saturare gli tutti gli spazi (vitali, mediatici, culturali), acquisendo di fatto e nel loro insieme tutte le caratteristiche che solitamente si attribuiscono al rumore, sia che lo si intenda come disturbo dell’informazione, sia che lo si definisca come suono che non è più destinatario della pietosa attenzione di foss’anche un unico ascoltatore.
Un’ulteriore avvertenza riguarda il termine agentività, cruciale nelle argomentazioni che seguono. Lo si intenderà nella sua accezione più filosofica che psicologica, in riferimento all’uso che Simon Emmerson fa del termine agency nel suo saggio Living Electronic Music (Emmerson, 2007), in cui il problema del live electronics è discusso anche in termini di percezione, più o meno difficoltosa, dell’agentività che promuove il suono prodotto durante la performance dal vivo, in relazione alla maggiore o minore capacità, da parte di chi ascolta, di individuare un certo complesso luogo-individuo-gesto quale sorgente di un determinato evento sonoro.
Secondo Raymond Murray Schafer, l’elettrificazione del suono è tra i principali responsabili della mutazione del paesaggio sonoro dalla dimensione hi-fi a quella lo-fi, cioè del progressivo aumento del rumore di fondo (Schafer, 1998, pp. 129-145). Nel trentennio che separa il brevetto del telefono (1876) dalla costruzione del primo elettrofono (il Telharmonium di Thaddeus Cahill, 1907, cfr. Chadabe, 1997, pp. 3-5), si struttura nel senso comune un connubio tra elettricità e distanza che è singolare per la sua esclusività: tanto naturale era associare la lontananza all’elettrificazione del suono, che non si pensò neppure a un uso “concertistico” del Telharmonium (che in fondo è una specie di grosso organo Hammond, di cui è progenitore e del quale condivide il meccanismo di differenziazione delle frequenze per generare le diverse note basato su ruote dentate) ma si puntò tutto sul suo possibile sfruttamento per un servizio di filodiffusione (rivelatosi poi fallimentare a causa delle intollerabili interferenze con le comunicazioni telefoniche). Il nesso fra elettricità e distanza era spesso segnalato dal prefisso comune tele-, ma non sempre; anche il teatrofono, ad esempio, serviva a portare i suoni dello spettacolo teatrale o del concerto dalla sala alle case borghesi tramite le linee telefoniche, ma è interessante che, in questo caso, il legame etimologico con la voce (-fono) appare obliterato nel suffisso, che sembra invece farsi carico, per analogia e assonanza, della mera suggestione tecnologica. Ben più interessante è però la prima conseguenza di tale nesso tra elettrificazione e distanza: lo scorporamento e la dislocazione, correlati alla schizofonia schaferiana (Schafer, 1998, pp.131-133).

Corpo e voce non sono più necessariamente correlati, e in generale non lo sono più suono e sorgente; ben rappresenta questa frattura la chitarra elettrica che, frutto tardivo della grande stagione dei primi elettrofoni, rappresenta plasticamente la separazione tra il complesso uomo-strumento situato qui e il suono dislocato altrove, e poco importa che si possa tenere l’amplificatore più vicino possibile al chitarrista in modo da ricreare (o piuttosto, simulare) un complesso unico uomo-strumento-suono. Ma l’enfasi sulla distanza non deve farci perdere di vista una conseguenza speculare, che è appunto, dall’altro capo del filo, il suo azzeramento: con lo scorporamento, il suono elettrificato può essere moltiplicato e reso prossimo all’ascoltatore indipendentemente da quella distanza che la stessa elettrificazione ha reso possibile tra suono e sorgente. L’azzeramento della distanza tra l’opera e chi la guarda (o ascolta) è uno dei fattori determinanti del fenomeno descritto da Benjamin come “perdita dell’aura”[1]. Nel periodo antecedente l’elettrificazione, il fruitore deve intraprendere un pellegrinaggio, e le opportunità di ascoltare una data opera (si pensi alle rappresentazioni wagneriane di Bayreuth, ma anche a certi pezzi solistici appannaggio di pochi virtuosi) nell’arco di una vita possono ridursi ad una sola o anche a nessuna, mentre il giudizio è costretto ad alimentarsi di memoria e suggestione fino a “consumare” l’esperienza effettiva trasformandola in pura impressione. Con la radio e la discografia, si ricostituisce un complesso ascoltatore-opera, del tutto privato e domestico, che consente al primo di fare esperienze multiple della seconda (un disco può essere “messo sul piatto” migliaia di volte). Memoria e suggestione lasciano il posto agli ascolti reiterati, non solo dell’opera intera ma anche di brevi frammenti, e l’esperienza dell’opera, sia pur deprivata di quell’alone divinizzante che proprio della suggestione e del ricordo si alimentava, dà luogo a una conoscenza diffusa e profonda dell’opera stessa che non ha riscontro nell’epoca precedente.
Come è noto, tutto il processo di elettrificazione portò alla nascita della discografia, e cioè alla concretizzazione di qualcosa che era stato considerato effimero e transeunte per definizione, il suono, in manufatti materiali permanenti (o quasi: non è tanto importante che lo siano davvero, quanto che chi li produce punti sempre sulla stabilità e la permanenza quali pregi esclusivi del mezzo di turno: non dovevano essere i compact disc, nella retorica che ne accompagnò il lancio, “eterni”?). Ora, se la conseguenza più comunemente riconosciuta della nascita della discografia fu appunto la “perdita dell’aura” – ma sarebbe forse meglio parlare, almeno per la musica, di “riconfigurazione dell’aura”, dopo che Vincenzo Caporaletti ha definito la “codifica neo-auratica” (cfr. Caporaletti, 2022, pp. 51-54) come paradossale conseguenza della diffusione del disco -, ben più sconcertante è, rovesciando il punto di vista, il divorzio fra suono e presenza. L’alleanza fra suono e presenza al servizio della sopravvivenza dell’uomo è preistorica: il suono è l’indizio certo che qualcosa è “presente e vivo”, minaccioso o rassicurante (tuono, ruggito o canto di madre), mentre la miglior metafora possibile per rappresentare ciò che semplicemente non c’è o non c’è più è – era – un “infinito silenzio”. Dopo l’elettrificazione un suono non sarebbe più stato un indizio inequivocabile, ma una presenza fantasmatica, inattendibile, dotata di un’agentività dislocata ed equivoca. Convivere con questo universo sonoro elettroacustico fatto di passato e di altrove, adattarsi all’insorgenza di un rumore di fondo che occorre ignorare perché privo di informazione (e perciò anche brutto), è il primo esempio di radicale riconfigurazione antropologica dell’esperienza acustica che l’attrito fra suono e tecnologia ha determinato. In questa fase, ciò che è obliterato è la sorgente: anche nei casi in cui parlare di agentività sia, a rigore, improprio (l’intenzione consapevole di chi lo produce è un caso particolare e minoritario tra i suoni che tessono il paesaggio sonoro), il suono finisce in ogni caso per perdere la sua credibilità ancestrale.
Nel 1959, grazie a un finanziamento della Fondazione Rockefeller, la Columbia University entra in possesso del colossale RCA Mark II (Victor per gli amici…) progettato due anni prima da Herbert Belar e Harry Olson (Patterson, 2011). Il Mark II è il prototipo, mai replicato, di un sintetizzatore a quattro voci di cui era possibile programmare, attraverso nastri di carta perforata, un’intera esecuzione musicale, fino all’esportazione del prodotto finito prima su disco (nella versione precedente della macchina, il Mark I, del 1954), poi su nastro magnetico. L’aspetto più singolare della sua storia sono le circostanze che indussero la RCA a disfarsene. Ciò accadde a seguito di energiche proteste degli orchestrali, che vedevano in Victor una concreta minaccia per i loro posti di lavoro; ma a monte di questa protesta neoluddista c’era la speculare ambizione, da parte della RCA, di rimpiazzare i musicisti con quel prodigioso apparecchio che avrebbe abbattuto per sempre i costi dell’orchestra (Di Scipio 2021, p. 186). Non se ne fece niente: il Mark II condivise un destino analogo a quello del Buchla 100, il sintetizzatore espressamente creato a fini di ricerca acustica e musicale per il San Francisco Tape Music Center nel 1963, finanziato anch’esso dalla fondazione Rockefeller (Subotnick, 2008). Avremmo potuto sorridere dell’ingenuità di orchestrali e imprenditori nel sopravvalutare le possibilità del Mark II, se il 12 febbraio 1987 si fosse verificato un evento destinato ad avverare i peggiori timori dei lavoratori.

Le parti strumentali dell’opera Countdown di Christopher Yavelow [2] furono infatti interamente eseguite dalla Boston Lyric Opera Company con un campionatore Kurzweil K250 (Byrd e Yavelow, 1986). Con i campionatori, che, a differenza di quanto accadeva con il Mark II e con qualsiasi sintetizzatore analogico, creano un suono orchestrale credibile perché, semplicemente, si servono dei suoni strumentali registrati [3], e con l’avvento susseguente delle librerie orchestrali, e perfino vocali, da integrare nell’infrastruttura di una digital audio workstation su PC [4], fu presto possibile surrogare l’orchestra con il lavoro di un unico individuo, cui la tecnologia permise non solo di scrivere, strumentare ed eseguire brani musicali, ma anche di sincronizzarli alle immagini. Il risultato di questo processo è che oggi, almeno nel cinema mainstream (ma anche nei programmi di divulgazione storica, nei documentari di viaggi, nelle sigle, nella pubblicità), e complice la cristallizzazione degli stili e delle attese del pubblico, si ha l’impressione di ascoltare sempre la stessa orchestra, sempre le stesse percussioni, roboanti e riccamente riverberate, sempre lo stesso coro apocalittico. Anche in questo caso, la tecnologia ha creato uno squilibrio e una successiva riconfigurazione del paradigma musicale nei suoi valori impliciti [5], e in particolare di ciò che tutti considerano l’agente naturale dell’esecuzione (il “chi”), lo strumentista, divenuto anche lui una presenza fantasmatica. Anche la prima fase dell’elettrificazione, beninteso, ha prodotto la scomparsa di alcuni mestieri musicali, quando il disco ha soppiantato l’esecuzione dal vivo – si pensi ad esempio al commento strumentale al cinema o alle sale da ballo, che ha trasformato la presenza di musicisti in carne ed ossa da condizione inevitabile a lusso – ma ha fatto emergere anche uno specialismo performativo specifico per i supporti registrati (il dj set). Tuttavia, la riconfigurazione prodotta dalle librerie strumentali ha prodotto un più radicale dissolvimento dell’agentività (concetto che, stavolta, invochiamo a pieno diritto), in quanto il gesto materiale dell’emissione sonora è surrogato all’origine [6].
A questo punto il legame fra quanto finora discusso e il discorso sull’intelligenza artificiale e i suoi artefatti si rivela da sé: anche l’IA crea oggetti alle spalle dei quali è difficile o impossibile individuare un agentività certa (stavolta della scrittura e non dell’emissione), anche i prodotti dell’IA hanno dunque una consistenza fantasmatica, anche per essi dovremo dunque riconfigurare la nostra percezione del fatto musicale integrando la possibilità che lo spazio sonoro sia popolato da messaggi senza emittente (oppure da un gigantesco emittente collettivo e privo di coscienza costituito dai big data e dagli algoritmi che li interpretano). Mi sembra tuttavia che il timore millenaristico nei confronti di un futuro distopico in cui la macchina esautorerà l’essere umano delle sue prerogative artistiche sia parte di una più generale attitudine, paranoica nel suo rifiuto di verificare i propri fondamenti, basata sulla stessa sostanziale incapacità di valutare un fenomeno nella sua reale entità che sta alla base dello speculare entusiasmo acritico.
Occorre notare, infatti, che l’automazione dei processi e la sostituzione del lavoro compositivo con forme di montaggio di elementi prefabbricati in ambienti di lavoro digitali esiste già da decenni, e molti sarebbero sorpresi nello scoprire che le backing tracks delle musiche (quando non tutta la musica) di documentari e servizi giornalistici “leggeri” sono prodotte esclusivamente assemblando loop estratti da collezioni vaste ma non illimitate, e che questo lavoro richiede comunque delle conoscenze specifiche che esulano dalla formazione tradizionale del musicista. L’atteggiamento apocalittico è poi funzionale alla censura e al silenzio intenzionale sui reali problemi innescati dall’uso onnipervasivo dell’IA, quali (solo per fare degli esempi) lo sfruttamento di quanti lavorano a cottimo per nutrirla, l’effettiva scomparsa di un gran numero di posti di lavoro a bassa specializzazione, il livellamento conformistico della conoscenza a “ciò che tutti sanno” e il conseguente, progressivo declino della complessità dall’orizzonte della conoscenza stessa. Tutti problemi che tendono invece ad essere ignorati da un discorso pubblico polarizzato fra il millenarismo e lo stolido ottimismo di chi esalta le opportunità offerte dall’IA sorvolando però su quali siano, in concreto, tali opportunità.
Ora, come si diceva, il rischio che l’IA soppianti l’artista appare, al momento, nullo, e legato più che altro a una concezione utilitaristica e unilaterale dell’arte come risposta a precise esigenze del mercato. Rispetto a quanto è riproducibile e imitabile, l’artista si trova infatti sempre altrove, impegnato a cercare qualcosa che le macchine, nutrite dell’esistente, non sono in grado di concepire. Ma soprattutto, l’artista non è un ingranaggio sostituibile della macchina artistica: se non c’è un individuo o una collettività che vogliono esprimersi attraverso l’arte, non c’è neanche l’arte. Se (solo per fare un esempio immediatamente verificabile) l’applicazione Suno è in grado di riprodurre stili e voci del pop, ciò non vuol dire che d’ora in poi Suno prenderà il posto degli artisti, ma che i prodotti da essa confezionati semplicemente sono qualcosa che ha meno a che fare con l’arte che con i meccanismi di produzione e consumo musicale, anche nel caso in cui a crearli non sia l’IA, ma l’essere umano, qualora egli sia solo il riproduttore di “ciò che tutti sanno” (vale a dire: ciò che tutti si aspettano di ascoltare) [7]. Ma questo non vuole essere il consueto, vieto richiamo alla superiorità dell’uomo sulla macchina. Non tutta la musica in circolazione, infatti, può o deve essere arte, e non tutto il lavoro del musicista è finalizzato all’arte. Con l’IA, esattamente come accaduto con le orchestre virtualizzate, è destinato a svanire il lavoro di chi oggi scrive jingle, loghi sonori, suonerie per gli smartphone, frammenti per le attese ai centralini, segnali musicali per gli annunci ferroviari, sigle televisive, musica di sfondo per supermercati e sale d’attesa, e insomma una varia tipologia di musiche applicate in cui è richiesto un alto grado di stereotipizzazione (meno facile da conseguire di quanto si pensi); e ancora alcuni sottogeneri e prodotti della musica (genericamente) pop, per non parlare di certi aspetti del lavoro in studio (postproduzione, mastering ecc.). Tutte attività che richiedono competenze complesse, esperienza, specializzazione e una profonda conoscenza del mestiere e dei suoi strumenti di lavoro, attività la cui esistenza è concretamente assediata dall’intelligenza artificiale.

Alla fine di questo percorso è abbastanza chiaro perché queste presenze acustiche fantasmatiche prodotte dalla schizofonia e dalla virtualizzazione siano “sconsacrate”, ma forse è meno chiaro perché siano “rumore”. Prendiamola un po’ alla lontana. In un passo dal Bello musicale Eduard Hanslick scrive: «[…] Ora immaginiamo un arabesco non morto e immobile, ma che nasca davanti ai nostri occhi in una continua autotrasformazione» (Hanslick, 2020). Con questa geniale intuizione, Hanslick tentava di spiegare la bellezza di un’arte che non rinvia a contenuti esterni, ma trova in sé il proprio referente, la propria morfologia e insomma la propria ragion d’essere. Cosa avrebbe pensato Hanslick vedendo i salvaschermo animati ottenuti con poche righe di codice Processing, o la ben nota sintesi grafica che accompagnava la musica eseguita da Windows Media Player intorno agli anni duemiladieci? Probabilmente il suo stupore non sarebbe scaturito tanto dalle immagini in sé, quanto dalla nostra indifferenza nei loro confronti, cioè nei confronti di qualcosa che ha perso per noi ogni valore estetico perché troppo facile da ottenere o anche solo troppo facile da vedere. Analogamente, un musicista del primo Novecento sarebbe forse strabiliato davanti a certe musiche orchestrali e corali nello stile di Holst o di Strauss che accompagnano film e cartoni animati a tema “magico” o addirittura spot pubblicitari di grissini e merendine. Tutti prodotti che non godono più né della nostra attenzione né della nostra stima benché essi richiedano una profonda conoscenza degli strumenti virtuali e del repertorio così come gli arabeschi grafici richiedono una profonda conoscenza del codice informatico e delle geometrie soggiacenti. C’è infine da credere che, a fronte di una sconcertante facilità nel riprodurre stili musicali di largo consumo da parte dell’IA, anche questi prodotti vedranno molto ridimensionate le loro “quotazioni” estetiche.
Tutto questo si chiama inflazione. La tecnologia rende facile ottenere ciò che prima costava tempo e maestria, inonda lo spazio sonoro di un numero enorme di oggetti privi di interesse e di valore che un tempo, a parità di morfologia e contenuti, sarebbero stati ritenuti oggetti d’arte. La probabilità che un tale oggetto pervenga a una qualche forma di esistenza oggi è molto più alta, conseguentemente l’informazione racchiusa in esso è scarsa o nulla, e ci sollecita, come scrive Agostino Di Scipio, a «tradire le macchine» (Di Scipio, 2002), cioè individuare usi imprevisti, aberranti e creativi, e a ripristinare un rapporto segnale/rumore accettabile. E a non darla vinta ai dirigenti della RCA che, nel 1959, sognarono, per amore del profitto, una musica senza musicisti.
Note
[1] Si fa riferimento naturalmente al celebre saggio pubblicato da Walter Benjamin nel 1936 (Benjamin, 2000) in cui indica appunto nella perdita dell’aura, cioè del carattere teofanico ereditato a sua volta dall’antica funzione cultuale dell’arte, una delle conseguenze principali della riproduzione fotografica dell’opera d’arte visiva e del suo moltiplicarsi senza limiti. A onor del vero, l’estensione di questi concetti alla musica è meno opera di Benjamin che dei suoi commentatori.
[2] Si veda al LINK [consultato il 4 agosto 2025].
[3] Nei campionatori e nelle orchestre virtuali odierne la capacità delle memorie, di massa e di lavoro, dei calcolatori consente di utilizzare suoni abbastanza lunghi da eliminare la necessità del loop.
[4] Una digital audio workstation, in gergo “daw”, è un software che consente di registrare tracce audio – la metafora soggiacente è quella del registratore multipista – e tracce MIDI, ossia tracce dell’esecuzione che viene poi indirizzata a sintetizzatori o campionatori software residenti nella memoria del computer.
[5] Si fa riferimento alla nozione di “paradigma” formulata da Alcedo Coenen (Coenen, 1994) a proposito dell’opera di Karlheinz Stockhausen, Secondo Coenen, per l’opera di compositori particolarmente influenti e complessi è possibile applicare il paradigma scientifico descritto da Thomas Kuhn in termini di valori (solitamente impliciti, o dati per scontati ed universali fino a prova contraria: si tratta delle risposte a domande quali chi, dove, per chi e perché si fa musica), modelli (metafore esplicative ed illuminanti, quali ad esempio la “galassia” e la “spirale” per Stockhausen), generalizzazioni (le tecniche compositive) ed esemplari (composizioni esistenti o nuove che si armonizzano con il contesto paradigmatico).
[6] È forse il caso di ricordare che uno degli effetti più sconcertanti del sorgere della musica per solo supporto fra gli anni Quaranta e Cinquanta, cioè della musica che definiamo, talora impropriamente, “acusmatica”, era proprio il disagio di dover ascoltare suoni prodotti da nessuno; tale disagio è stato spesso imputato all’ostinazione a riprodurli in sale da concerto e teatri, luoghi in cui, per loro natura, qualcuno avrebbe dovuto essere sul palco, ma non c’era, con conseguente incongruenza fra rituale privato (l’ascolto domestico della radio o del disco) e luogo di culto pubblico. Quel disagio ha però anche una causa più profonda, che risiede nell’impossibilità di concepire un agentività, foss’anche dislocata, all’origine di configurazioni sonore che, proprio in virtù di tale assenza (molto più che per le loro asserite insufficienze estetiche e musicali), suonarono farneticanti a molti dei primi ascoltatori. Se si vuole, nell’ascolto acusmatico convergono due forme antagoniste del perturbante, il weird, cioè la comparsa di ciò che non dovrebbe esistere o avrebbe dovuto restare nascosto, e l’eerie, cioè l’assenza inquietante di ciò che dovrebbe esserci, ma non c’è (Fisher, 2018).
[7] A commento di un’inserzione di Suno su Facebook, in cui un “producer” dichiara il suo entusiasmo per questa applicazione che schiude nuovi orizzonti alla creatività, un commentatore scrive: “I produced a song I didn’t write, didn’t play on, didn’t sing on, didn’t mix and didn’t perform. Now I’m a genuine music artist! I love it.” L’ironia di costui coglie, a mio avviso, l’essenziale: il problema non è che l’applicazione esautora l’artista, ma che l’artista non è più tale perché non si diverte più.
Bibliografia
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2000.
Byrd D., Yavelow C., The Kurzweil 250 Digital Synthesizer, in «Computer Music Journal», Spring, 1986, Vol. 10, No. 1 (Spring, 1986), pp. 64-86.
Caporaletti V., Teoria delle musiche audiotattili, EDT, Torino, 2022.
Chadabe J., Electric Sound. The Past and Promise of Electronic Music, Prentice Hall, Upper Saddle River NJ, 1997.
Coenen A., Stockhausen’s Paradigm. A Survey of His Theories, in «Perspectives of New Music», Vol. 32, No. 2 (Summer, 1994), pp. 200-225.
Di Scipio A., Circuiti del tempo, LIM, Lucca, 2021.
Di Scipio A., Macchine da tradire. Eredità del XX secolo nella tecnologia musicale di domani, in AA.VV., Musica e tecnologia domani. Convegno internazionale sulla musica elettronica. Teatro alla Scala 20-21 novembre 1999, LIM, Lucca, 2002, pp. 209-215.
Emmerson S., Living Electronic Music, Ashgate, Farnham, 2007.
Fisher M., The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018.
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Patterson N., The Archives of the Columbia-Princeton Electronic Music Center, in «Notes», Vol. 67, No. 3 (March 2011), pp. 483-502.
Schafer R.M., Il paesaggio sonoro, LIM-Ricordi, Lucca-Milano, 1998.
Subotnick M., Music as Studio Art, in AA.VV., The San Francisco Tape Music Center. 1960s Counterculture and the Avant-Garde, a c. di D.W. Bernstein, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 2008, pp. 112-116.
Luigi Pizzaleo è laureato in Lettere e diplomato in pianoforte, composizione e musica elettronica presso università e conservatori abruzzesi. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dello spettacolo presso l’Università di Firenze. Ha pubblicato saggi e interventi sui temi delle esperienze storiche della musica elettroacustica e dell’avanguardia. Insegna a contratto Storia della musica elettroacustica al Conservatorio di Bologna. È professore di ruolo di Storia della musica al Conservatorio di Como.
