§Rumore.
Ambiente, pratiche sociali e produzione musicale
La radio, emittente del rumore in formato Sei gradi...
di Antonio Mastrogiacomo

L’omaggio alla radio, come formulato dal testo che segue, si sviluppa su un duplice livello: da un lato, riconosce la funzione simbolica e culturale della trasmissione radiofonica come forma ordinata da una regia invisibile all’ascoltatore, capace di alternare musica, parole e silenzio per educare chi ascolta [1]; dall’altro lato, va riconosciuta la radio stessa quale veicolo e scenario privilegiato per la diffusione del rumore organizzato, in particolare nel contesto storico del secondo dopoguerra. È attraverso la radio, infatti, che le pratiche elettroacustiche hanno trovato un primo consolidamento, beneficiando delle infrastrutture tecniche e delle competenze sviluppate nei centri specializzati [2]

In questa lettura, la radio compare non soltanto come strumento di trasmissione, ma come spazio produttivo/laboratoriale, capace di ospitare e rendere udibile una estetica del suono in cui il rumore — un tempo relegato ai margini dell’ascolto musicale — diventa materia prima e protagonista della composizione. L’omaggio alla radio, dunque, non si esaurisce nella nostalgia di un formato, ma si estende al riconoscimento del suo ruolo storico nel trasformare le modalità stesse di fare e di percepire la musica.

Jean-Michel Basquiat, Lateral View, from Anatomy, 1982

Sei gradi – Noise addiction

Eccezionalmente proposto in apertura a questo nuovo fascicolo della rivista roots-routes, il suo quarantanovesimo, Vi diamo il benvenuto a una meno abituale interferenza testuale di Sei gradi, piacevolissima trasmissione che articola sei tappe collegate tra loro da fili invisibili che mettono insieme musica, cultura e curiosità [3].

Come avrete intuito, la puntata di oggi è dedicata al rumore.

Ebbene, che cosa intendiamo quando diciamo “rumore”? 

È semplicemente un suono fastidioso o caotico? 

Oppure può trasformarsi in qualcosa di più?

Le voci confuse, il traffico, il ticchettio di un orologio, i fruscii della natura, le interferenze di un apparecchio elettronico…  a partire dal Novecento il rumore si insinua nelle pieghe della contemporaneità, comincia ad assumere un ruolo sorprendentemente ricco e complesso tanto nella storia della musica quanto della cultura di massa, talvolta inatteso, arrivando a sfidare fuori tempo massimo i confini del bello e a stimolare nuove forme di espressione artistica se non proprio la creazione di nuovi linguaggi [4].

Come d’abitudine, il tracciato della trasmissione misura sei gradi di separazione distinti in un percorso che oggi mette insieme brani magari distanti tra loro, in realtà intimamente connessi per esplorare il rumore da diverse angolazioni.

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1° grado

Frankie hi-nrg mc è uno dei nomi storici del rap italiano, un artista che dagli anni ’90 ha saputo raccontare la città, la realtà delle periferie, con parole pesate e sonorità incisive. Il brano proposto come primo grado si chiama “Incipit” e apre il suo album del 1997 Verba Manent: non è una canzone di forma tradizionale, piuttosto una sorta di introduzione-sonora all’intero disco. 

In questa traccia, l’artista romano bilancia coscienziosamente rumori urbani, frammenti di suoni metallici, stridii e scratch di campionamenti evocativi. Guardiamo più da vicino anche il testo, il cui contenuto si presenta come una breve e intensa meditazione sul rumore… Consideriamo Incipit come fosse un manifesto:

Frankie hi-nrg mc – Incipit (1997)

[Inizia con volume basso della traccia Incipit che sfuma piano piano] 

 

Per favore  

Regoli il volume del suo giradischi  

In modo da sentire la mia voce come se io stessi conversando con lei a un paio di metri 

Ecco, così 

Scusi, ancora una prova di volume 

 

Frankie (Frankie Hi-NRG) Frankie (Frankie Hi-NRG) Frankie (Frankie Hi-NRG)…

Il passaggio iniziale rivela, nella sua essenzialità, una riflessione profonda sull’ascolto, la distanza e la qualità della presenza vocale nel contesto mediatico [5]. Si evoca un gesto pratico e quotidiano: regolare il volume di un dispositivo per ascoltare una voce registrata. Ciò che appare come una semplice indicazione tecnica si trasforma, nell’economia delle parole scelte, in una riflessione implicita sul desiderio di mantenere una dimensione umana, relazionale e proporzionata nell’ascolto mediato. La richiesta di “sentire la mia voce come se io stessi conversando con lei a un paio di metri” introduce un criterio non misurabile in decibel, ma in prossimità affettiva e spaziale. L’ascolto non deve qui essere inteso come semplice ricezione di un segnale sonoro, ma come simulazione di una relazione corporea, intima, intenzionale. 

Da un lato la tecnologia e la sua scalata nell’esasperare la potenza e l’invadenza del suono (auricolari ad alto volume, ambienti sonori sovraccarichi, compressione audio), dall’altro un invito alla misura come gesto di resistenza in rapporto a un ascolto proporzionato all’umano, in cui la voce possa conservare la sua collocazione nello spazio, la sua fragilità, la sua distanza riconoscibile. La frase finale, “Scusi, ancora una prova di volume”, rafforza questa delicatezza, alla ricerca del giusto equilibrio tra presenza e discrezione, tra contatto e rispetto. Andiamo avanti…

 

Buongiorno e un tuffo nel mare tempestoso di rumori 

Noi anche le ore libere riempiamo di rumore 

È una droga non se ne può fare a meno 

L’udito è in pericolo, su questo si è operato 

Con il rumore tra le mani Quello dannoso 

Con il rumore tra le mani Che resta nell’orecchio 

Con il rumore tra le mani Quello dannoso 

Con il rumore tra le mani

 

Frankie (Frankie Hi-NRG) Frankie (Frankie Hi-NRG) Frankie (Frankie Hi-NRG)…

 

L’immagine del risveglio come “tuffo in un mare tempestoso di rumori” rovescia l’idea del mattino come momento di pace e apertura al mondo, e ci proietta immediatamente in una condizione di immersione forzata in un ambiente sonoro saturo, ostile. La riflessione si allarga subito a un dato comportamentale e culturale: non solo siamo circondati dal rumore, siamo anche attivamente partecipi della sua proliferazione. Persino nelle ore libere — quelle che potenzialmente potrebbero aprirsi al silenzio, all’ascolto o all’attenzione — scegliamo di mantenere alta la soglia della stimolazione acustica. Il rumore diventa così non solo ambiente ma anche dipendenza. La sua natura si fa quasi tossicologica: come una droga, il rumore appare necessario, irrinunciabile, e questa constatazione ci costringe a riconoscere quanto profondamente sia mutata la nostra soglia di tolleranza al silenzio, percepito come vuoto se non minaccia [6].  

In soldoni, la condizione descritta non è solo il frutto di un processo tecnico (urbanizzazione, industrializzazione, mediatizzazione) ma anche culturale: ci siamo adattati a un mondo rumoroso, e questo adattamento ha un costo sensoriale e psichico. Il rumore diventa una materia tattile, “quello dannoso”, quello che permane, che “resta nell’orecchio”, evocando fenomeni fisici reali come l’acufene, ma anche memorie sonore invasive, persistenti, difficili da cancellare. Il rumore non passa, si imprime, si installa. Il corpo e la mente non lo assorbono senza conseguenze [7].  

Se il rumore non risulta solo da una condizione esterna per dare spazio a un ascolto interiore, radicato, e per questo ancora più difficile da mettere in discussione, la stessa abitudine al rumore invita tuttavia a dare asilo alle sonorità che ci portiamo dentro, quelle che produciamo, che scegliamo, che subiamo, e di cui, troppo spesso, non possiamo più fare a meno.

 

2° grado

IlaMos ASMR – ASMR (2025)

“il rumore tra le mani” ci lascia davanti a un bivio radicale: da un lato la consapevolezza della responsabilità nella produzione di suoni e rumori, dall’altro la possibilità di manipolarli, modellarli, trasformarli. Pur introdotto il rumore in formato “emergenza” e in stato di allerta, da qualche tempo vediamo emergere pratiche che banalmente lo addomesticano, lo rifiniscono e lo riassegnano a funzioni nuove. 

L’ASMR, acronimo di Autonomous Sensory Meridian Response, rappresenta infatti uno degli esempi più significativi di questa evoluzione: partendo da suoni spesso minimi, marginali o addirittura scartati nel contesto quotidiano — fruscii, tocchi, sfioramenti, bisbigli — l’esperienza d’ascolto proposta viene calibrata con estrema precisione, mirata a provocare una risposta fisica e mentale da parte dell’utente [8]

Transizione a suo modo rivelatrice, stavolta il rumore, per come compreso e controllato, può offrirsi come strumento di benessere, persino opporsi alla logica del suono invadente. All’esposizione controllata di “rumore tra le mani” si accompagna pertanto una modalità ulteriore di produzione e ricezione sonora: carezzando l’ascolto, la componente materica dei suoni cede inavvertitamente il passo alla voce. Quasi sempre femminile, si sovrappone agli stimoli acustici con un sussurro calibrato, prossimo all’orecchio dell’ascoltatore. Non è un messaggio da trasmettere, ma una presenza da abitare: la parola si fa timbro, respiro, contatto acustico. La funzione non è informativa, bensì erotica: la voce guida, coccola, accompagna i suoni prodotti con un andamento lento, costante, volutamente privo (o quasi) di picchi. È un suono che si incastra tra gli altri, non li sovrasta ma li sveste, instaurando un doppio livello di piacere nell’ascolto — quello tattile, derivato dalla microfonazione dei rumori, e quello relazionale, costruito dalla vicinanza vocale [9]

Il “rumore tra le mani” diventa in altre parole, formalmente, intimo per le orecchie: la produzione dei contenuti ASMR, nata per svilupparsi in rete, origina infatti da spazi domestici attrezzati come camere da letto, camerette, piccole stanze personali che si trasformano in studi di registrazione ad alta sensibilità, con microfoni a condensatore, pannelli fonoassorbenti, set luci e altra attrezzatura ancora da acquistare, dipende da come va il canale… Da luogo privato per eccellenza, la cameretta si riconfigura insomma come factory, spazio di produzione e ricreazione su larga scala umana, in accordo a modelli di condivisione che, per quanto affini, affollano anche altre piattaforme, ben oltre youtube.  

 

3° grado

Se con l’ASMR abbiamo esplorato la dimensione intima e ravvicinata del suono, possiamo finalmente fare un passo indietro nel tempo per incontrare qualcuno che, già sessant’anni fa, aveva intuito, in forma artistica e non spettacolare, che anche il più semplice degli oggetti può avere una vita musicale. Pierre Henry, tra i pionieri della musica concreta, registrava rumori quotidiani per poi piegarli, isolarli, dilatarli, renderli arte sonora. In questa composizione del 1963, protagonista è una porta, con i suoi cigolii, i suoi colpi secchi, le sue vibrazioni legnose… e il respiro umano, che le si intreccia come stesse raccontando una storia segreta.

Pierre Henry – Variations pour une porte et un soupir (1963)

Nato a Parigi nel 1927, Pierre Henry è stato uno di quei rari compositori che non solo hanno inventato un linguaggio, ma hanno anche cambiato per sempre il modo in cui ascoltiamo il mondo [10]. Accanto a Pierre Schaeffer, negli studi della Radiodiffusion-Télévision Française, Henry partecipò alla nascita della musica concreta: un’idea radicale per l’epoca, in cui la partitura lasciava spazio alla registrazione, e la penna del compositore diventava un paio di forbici, un registratore a bobina, un banco di montaggio (agli esordi, tutto passava per il disco) [11]. Per Henry il gesto creativo non partiva dalla pagina bianca, ma da frammenti del reale — un rumore di passi, un respiro, il cigolio di una porta — che venivano tagliati, incollati, rallentati, filtrati, fino a trasformarsi in eventi musicali dotati di una loro drammaturgia. Lontano da ogni snobismo accademico, Henry coltivava una curiosità onnivora: ha collaborato con coreografi come Maurice Béjart [12], ha scritto messe elettroniche, ha flirtato con il rock e la cultura pop, mostrando che il confine tra arte “alta” e “bassa” era più poroso di quanto si volesse ammettere. La sua musica è sempre stata un gioco serio, in cui rigore e libertà si intrecciavano in modo indissolubile. Riascoltato oggi, il lavoro di Henry appare come l’archetipo di molte pratiche sonore contemporanee [13]

Partendo dai suoni stessi, in Variations pour une porte et un soupir, Henry prende due elementi minimi, quasi banali: li registra, li ascolta, li isola… e poi li trasforma in una serie di variazioni, come per il tema di una sinfonia. La porta non è più una porta ma diventa altro da sé; il sospiro non è più semplicemente tale ma postula frase musicale, accento, emozione [14]

Questa composizione tanto vicina alle attrazioni musicali dell’infanzia ci costringe a riascoltare il quotidiano con orecchie nuove, a riconoscere che anche ciò che non è “musica” può essere musicale, specie a partire da quando il mondo della musica concreta ha iniziato considerare il rumore quale materia esplicitamente musicale, aprendo una finestra sulla percezione che sfida i nostri pregiudizi invitando a un ascolto più libero e profondo [15].

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4° grado

Se Pierre Henry apriva e chiudeva una porta trasformandola in arte sonora, i Chemical Brothers spalancano il portone direttamente su un’altra epoca: quella dei club, delle luci stroboscopiche e dei beat ipnotici [16]. Certo, nel nuovo millennio l’elettronica ha rivoluzionato il modo di fare musica e di trattare il rumore [17], ma una parentela segreta fra i due mondi rimane pur sempre impressa: Henry, pioniere della musique concrète, lavorava fisicamente sul nastro magnetico, registrando suoni reali e manipolandoli con tagli, sovrapposizioni e variazioni di velocità; Tom Rowlands ed Ed Simons operano in un contesto radicalmente diverso: computer, sequencer e campionatori digitali: in entrambi i casi, l’atto creativo parte dall’appropriazione di un frammento di realtà sonora e dalla sua trasformazione in qualcosa di nuovo [18].  

Chemical Brothers – Taste of Honey (2015)

In Taste of Honey (2015), il ronzio delle api — registrato, rallentato, immerso in una trama elettronica — diventa il fulcro di un brano che non teme di farsi straniante, quasi ipnotico. 

Pubblicato nel 2015 dopo un silenzio di cinque anni, l’album Born in the Echoes propone uno sguardo più coraggioso verso forme imprevedibili: con Taste of Honey, i Chemical Brothers confermano di essersi mossi sul sottile confine tra sperimentazione, ironia e nostalgia sonora che, sullo sfondo di una carriera ormai pluridecennale, segna una deviazione intelligente e contaminata. In altre parole, fa da soglia all’ingresso nel post-moderno: ironico, sperimentale modo loro, con una componente pop irresistibile. 

Loro la definiscono quasi come un esperimento nato “gettandolo lì”, e “andato storto… o andato bene”, come un ricordo delle prime idee che facevano decollare la loro creatività a sorpresa. Restando fedeli alla loro identità sonora — quella del campionamento, dell’impatto ritmico e della sorpresa sonora — mantengono sempre viva una relazione giocosa con la forma-canzone: con Taste of Honey da sfondo sgradito il ronzio si rivela ingrediente capace di integrarsi alla perfezione con l’arrangiamento per creare un’esperienza d’ascolto che si ripromette di far ballare. La stratificazione delle sonorità produce quel senso di movimento e crescita, quel flusso continuo che richiama la natura inarrestabile del ronzio e, metaforicamente, di altre dinamiche sociali e personali: a questo sostrato musicale si aggiunge infatti la componente vocale, con un testo semplice ma incisivo, che recita…

If you don’t have no money 

You won’t get no honey 

It just keeps on growin’ 

The money is flowin’.

…una riflessione sulla realtà economica e sociale, sul desiderio e sulla (im)possibilità di attingere al “miele”, residuo metaforico di una ricompensa di dolcezza, amore o successo che però si lega in modo inestricabile al denaro, al potere economico che governa i rapporti umani e sociali.  Come sottolinea Kitty Empire su «The Guardian», nonostante il testo elementare (cfr. rima “honey”/“money” che suona quasi ridicolo), la resa sonora è straordinaria, con suoni “stereofonici di un’ape gigante” e quel momento chitarristico che sorprende chi ascolta [19]

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5° grado

Dal pulsare incessante del ritmo urbano e dal flusso incalzante delle liriche dei Chemical Brothers, il discorso si sposta verso un’idea molto diversa di suono e musica nel quinto grado, quello della dominante. Entriamo infatti in un territorio affascinante, dove il rumore nasce dall’imperfezione umana per diventare arte vera e propria: la Portsmouth Sinfonia offre l’immagine radicalmente alternativa di un’orchestra composta da esecutori amatoriali che, con le loro imperfezioni, rendono omaggio ai classici della tradizione musicale occidentale [20]

Lontani dall’ipercontrollo e dalla perfezione tecnica, riescono tuttavia a mettere in luce un aspetto spesso trascurato della musica: la sua dimensione umana, vulnerabile, e il piacere collettivo di fare musica più che di eseguirla alla perfezione. Così, dal flusso ipertecnologico e digitale del quarto grado, approdiamo a una celebrazione della partecipazione collettiva e della gioia sonora, ricordandoci che, a volte, la bellezza nasce proprio dalle imperfezioni e dal respiro umano che le accompagna.

Portsmouth Sinfonia – Blue Danube Waltz

Fondata nel 1970 da Gavin Bryars presso il Portsmouth College of Art, la Portsmouth Sinfonia rappresenta uno degli esperimenti più radicali e ironici della musica del secondo Novecento. L’orchestra nasce con una regola tanto semplice quanto dirompente: chiunque può partecipare, indipendentemente dal proprio livello di competenza, a patto di impegnarsi seriamente a suonare nel miglior modo possibile lo strumento che ha scelto — anche se non lo conosce affatto. Il risultato è una combinazione surreale di impegno e inadeguatezza tecnica, che produce esecuzioni claudicanti ma straordinariamente vive, come nel celebre Blue Danube Waltz che abbiamo appena ascoltato: il celebre valzer di Strauss si trasforma in una festa traballante, piena di sbavature ritmiche e d’intonazione, eppure carichissimo di un’irresistibile energia collettiva [21].  

Tra i membri figurava anche Brian Eno, all’epoca reduce dall’esperienza nei Roxy Music, nelle vesti di clarinettista. Per Eno — già attratto dal caso, dall’errore e dai processi creativi non convenzionali — la Portsmouth Sinfonia era un laboratorio perfetto per mettere in discussione le gerarchie musicali tradizionali, anticipando molte delle idee che avrebbero nutrito le sue opere ambient e il suo pensiero teorico [22]. La sua presenza contribuì anche a dare visibilità al progetto, che finì per incidere dischi e addirittura esibirsi alla Royal Albert Hall. In questo senso, la Portsmouth Sinfonia non rappresenta affatto una boutade dadaista, apportando di fatto una riflessione concreta su cosa significhi “fare musica” e su quanto il concetto stesso di esecuzione sia plasmato da aspettative sociali e convenzioni estetiche, articolando uno strampalato invito ad ascoltare il rumore non solo come disturbo, ma come espressione umana autentica, ricca di umorismo e vitalità [23].

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6° grado

Arrivati alla conclusione di questo percorso, un singolare cammeo circoscrive questa più che eccezionale puntata di Sei gradi. Nel 1974, Raffaella Carrà presenta Rumore, un brano che, pur nella sua veste disco, affronta tematiche di vulnerabilità e desiderio: una donna, dopo aver preso una decisione di indipendenza, si trova a fare i conti con la solitudine e la paura, simboleggiate dal “rumore” che sente nella notte. Con il suo ritmo incalzante e una melodia più che orecchiabile, il brano si trasforma in un inno di empowerment, all’ombra della consapevolezza delle proprie fragilità. La Carrà, con la sua energia e presenza scenica, trasforma un tema riservato in un’esperienza collettiva, facendo del rumore un elemento di connessione tra l’artista e la società italiana [24].

R. Carrà – Rumore (1974)

Nel solco della musica pop-disco degli anni ’70, Rumore si distingue e fa ballare ancora oggi per il modo in cui trasforma un tema emotivo profondo in un ritmo incalzante da dance-floor: la base è caratterizzata da un groove costante e da un uso efficace della batteria elettronica che crea un’affilata tensione tra il senso di isolamento evocato dal testo e la forza dirompente della musica, che invita paradossalmente al movimento e alla socialità. Il “rumore” di cui parla la Carrà si trasforma nel vuoto, nella confusione interiore, nell’eco delle proprie paure notturne per un’ambivalenza tra musiche e testo che si rispecchia nell’arrangiamento, alternando momenti di intensità ritmica a pause in cui la voce emerge quasi solitaria, quasi a voler trasmettere quell’insicurezza sottesa [25]. Rumore si configura pertanto come una traccia che rompe con le tradizionali narrazioni romantiche, anticipando temi di autonomia e complessità emotiva che diventeranno sempre più centrali nel pop dei decenni successivi. Il successo di questa canzone è anche testimonianza di come il rumore – inteso come esperienza sensoriale e metaforica – possa essere trasformato in musica di grande impatto, capace di coinvolgere e unire un vasto pubblico.  

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Dal ritmo urbano e aggressivo di Frankie Hi-NRG MC, passando per la cura intimista e sensoriale dell’ASMR, aggirandosi tra la sperimentazione visionaria di Pierre Henry e l’energia contemporanea dei Chemical Brothers, fino al rumore orchestrale della Portsmouth Sinfonia orchestra e la disco music di Raffaella Carrà, il rumore ci raggiunge in tante forme. Non è solo un sottofondo da evitare o temere, ma un linguaggio vivo, un invito a ripensare il nostro modo di ascoltare il mondo e di abitare gli spazi sonori che ci circondano. È uno stimolo a mettere in discussione la separazione netta tra rumore e musica, tra caos e ordine, tra disturbo e piacere.  Forse, come suggeriscono gli ascolti di questa puntata, il rumore non è solo un compagno di strada inevitabile, ma un alleato inatteso con cui imparare a dialogare. A patto di ascoltarlo davvero, con attenzione e consapevolezza, rispettando quel fragile equilibrio tra presenza e silenzio che rende ogni suono degno di essere accolto [26].  

Vi ringraziamo per averci fatto compagnia e vi invitiamo alla lettura di questo vibrante fascicolo.

Note 

[1] Come già osservava Arnheim, la radio si configura come un’arte fondata sull’ascolto, capace di rivelare dimensioni estetiche proprie del medium sonoro. Cfr. Arnheim, R., La radio. L’arte dell’ascolto, Editori Riuniti, Roma, 2003.
[2] Per un’introduzione chiara e sintetica al ruolo della radio come laboratorio tecnologico-musicale e al conseguente sviluppo della musica elettroacustica, si veda Scaldaferri, N., Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milano e la ricerca musicale negli anni Cinquanta, LIM, Lucca, 1997. Per una ricostruzione più ampia, che oltrepassa la stagione degli anni Cinquanta e offre un quadro storico-critico esteso della creatività musicale elettroacustica e informatica, si rimanda a Di Scipio, A. (2021), Circuiti del tempo. Un percorso storico-critico nella creatività musicale elettroacustica e informatica, LIM, Lucca.
[3] Per un inquadramento del programma radiofonico Sei Gradi, in onda su Rai Radio 3 dal lunedì al venerdì dalle 18:00 alle 18:45, si veda la presentazione ufficiale sul sito Rai 
Ispirato alla teoria dei sei gradi di separazione, il programma connette sei tracce mettendo in rapporto tra loro legami logici, storici, stilistici o biografici. Particolarmente significativa la puntata del venerdì, in cui la scaletta è costruita su proposta di un ascoltatore e selezionata dalla redazione.
[4] Per una suggestiva rassegna sul rumore e sul suo ingresso nella musica del Novecento, si veda F.K. Prieberg, Musica ex machina, Torino, Einaudi, 1963. Si veda anche N. Zito, Linee e colori del suono-rumore: Luigi Russolo, disponibile al LINK 
Per un riferimento a Russolo e alla rappresentazione delle idee futuriste di “dinamismo” e “simultaneità”, volte ad abbattere i confini stilistici, formali e concettuali, a partire dalla centralità del rumore.
[5] Sulla dimensione del disco come oggetto culturale e veicolo di esperienze estetiche si veda E. Eisenberg, L’angelo con il fonografo: musica, dischi e cultura da Aristotele a Zappa, Torino, Instar Libri, 1997.
[6] Si veda a riguardo A. Mastrogiacomo, Tensioni e conflitti nel paesaggio sonoro, disponibile al LINK
[7] A riscatto delle malattie derivate dall’esposizione al rumore, per rivalutare il ruolo terapeutico della musica nella modulazione delle funzioni cerebrali, si segnala O. Sacks, Musicofilia: Storie di musica e cervello, Torino,  Einaudi, 2007.
[8] Barratt e Davis esplorano il fenomeno ASMR, descrivendolo come uno stato mentale simile al flow, caratterizzato da sensazioni piacevoli e rilassanti in risposta a stimoli uditivi e visivi specifici. Cfr. E. L. Barratt, N. J. Davis, Autonomous Sensory Meridian Response (ASMR): a flow-like mental state, PeerJ, 3, e851, 2015 disponibile al LINK
Per una rassegna globale delle pubblicazioni su ASMR, tra cui articoli, saggi e libri, si veda la sezione dedicata sul sito dell’ASMR University, disponibile al LINK
[9] Per un approfondimento sulle tecniche ASMR e sul loro impatto nel contesto moderno, si veda E. Murmur, ASMR: Il Suono del Relax nel Mondo Moderno, disponibile al LINK
[10] Cfr. il sito ufficiale di Pierre Henry, disponibile al LINK
[11] Sull’esperienza del GRM e la sua storia si veda E. Gayou, GRM. Le Groupe de Recherches Musicales (Cinquante ans d’histoire), Paris, Fayard, 2007. Per una riflessione sulla musica concreta e le origini della sperimentazione elettroacustica (finalmente disponibile anche in italiano), si veda P. Schaeffer, Alla ricerca di una musica concreta, a cura di M. Viel e E. “Gomma” Guarneri, Milano, Shake Edizioni, 2009.
[12] Si veda a riguardo la scheda in rete, anche per la modalità di consultazione proposta, disponibile sul sito dell’Opéra de Paris
[13] Si suggerisce a riguardo il recente e stimolante libro di Franco Degrassi, da rapportare compiutamente alle sue pratiche compositive e didattiche, F. Degrassi, Acusmatica. Un’arte sonora. Oltre la musica, Haze Auditorium, Milano, 2025.
[14] Un’analisi approfondita della composizione è disponibile sulla pagina in rete dell’Ina-GRM al LINK
[15] Per un approfondimento sulle pratiche compositive e analitiche avanzate nella scuola primaria, si veda E. Pappalardo, Composizione, analisi musicale e tecnologia nella scuola primaria: I bambini compongono, raccontano, analizzano, riflettono, Pisa, ETS, 2019. Per approfondire ulteriormente le pratiche di composizione e analisi musicale nella scuola primaria, si consiglia di consultare il sito un portale dedicato all’educazione al suono e alla musica, che offre una vasta gamma di risorse, articoli e materiali didattici.
[16] Preme segnalare l’uscita del volume G. Ascione, Napoli balla. Dancefloor e sottoculture nella città postcoloniale, Napoli, Tamu Edizioni, 2025 per non tralasciare il posizionamento post-coloniale di parte della scena musicale napoletana.
[17] Nel solco del post-coloniale e per un’analisi delle tecnologie sonore emergenti dalle pratiche della diaspora afrodiscendente, si segnala B. D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Milano, Meltemi, 2021.
[18] Sul tema del sampling, si veda il prezioso, per quanto non proprio recente, contributo di P. Théberge, Any Sound You Can Imagine: Making Music / Consuming Technology, Wesleyan University Press, 1997.
[19] La recensione completa è disponibile al LINK
[20] Per una panoramica sulla Portsmouth Sinfonia, si veda C. M. Reeves, A. Walker (a cura di), The World’s Worst: A Guide to the Portsmouth Sinfonia, Soberscove Press, Chicago, 2020.
[21] Per ulteriori informazioni, si veda il sito ufficiale della Portsmouth Sinfonia
[22] Per approfondire il pensiero e le pratiche musicali di Brian Eno, cfr. B. Eno, A Year with Swollen Appendices, London, Faber and Faber, 1996.
[23] Si veda a questo riguardo il recente contributo sul tema dell’improvvisazione di F. Giomi, Musica imprevedibile. Storia, metodi e training per l’improvvisazione collettiva, Arcana, Roma, 2022, con particolare riferimento all’esperienza di Elio Martusciello, incisivamente intitolata Conduction per tutti (Giomi 2021: 361-381); lo stesso compositore fiorentino, nel raccontare l’universo Derek Bailey (Giomi 2021: 82-93), si era soffermato sulla presenza del contrabbassista Gavin Bryars (Giomi 2021: 83-84) nel suo trio.
[24] Sul profilo dell’intrattenimento culturale, si segnala lo spettacolo intitolato Rumore, a cura di PoPsofia e organizzato presso il cortile del Maschio Angioino a Napoli nell’ambito delle attività del Festival della Filosofia in Magna Grecia, la cui presentazione è disponibile al LINK 
[25] Per approfondire la carriera e l’impatto culturale di Raffaella Carrà, si segnala A. Verde, Raffaella Carrà. Una leggenda in tre minuti. Biografia artistica completa della regina della tv, Francesco D’Amato Editore, Nocera Inferiore (Sa), 2024.
[26] A completamento del percorso, si consiglia infine la lettura di un volume di riferimento sulla musica elettronica sperimentale, cfr. Joanna Demers, Listening through the Noise. The Aesthetics of Experimental Electronic Music, Oxford University Press, Oxford – New York, 2010.

Antonio Mastrogiacomo vive e lavora tra Napoli e Reggio Calabria. Ha insegnato materie di indirizzo storico musicologico presso il Dipartimento di Nuovi Linguaggi e Tecnologie Musicali del Conservatorio Nicola Sala di Benevento e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Ha pubblicato “Suonerie” (CD, 2017), “Glicine” (DVD, 2018) per Setola di Maiale. Giornalista pubblicista, dal 2017 è direttore della rivista scientifica (Area 11 – Anvur) «d.a.t. [divulgazioneaudiotestuale]»; ha curato Utopia dell’ascolto. Intorno alla musica di Walter Branchi (il Sileno, 2020), insieme a Daniela Tortora Componere Meridiano. A confronto con l’esperienza di Enrico Renna (il Sileno, 2023) ed è autore di Cantami o Curva (Armando Editore, 2021). È titolare della cattedra di Pedagogia e Didattica dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria.