INVISIBILE
'Io qui, non qui'' L'Hamlet di Lenz Rifrazioni con gli attori sensibili ex lungo degenti del manicomio di Colorno
di Viviana Gravano

Lenz Rifrazioni, Hamlet, 2010/2012, courtesy degli artisti

“Il fatto da cui deve partire ogni discorso sull’etica è che l’uomo non è né ha da essere o realizzare alcuna essenza, alcuna vocazione storica o spirituale, alcun destino biologico. Solo per questo qualcosa come un’etica può esistere: poiché è chiaro che se l’uomo fosse o avesse da essere questa o quella sostanza, questo o quel destino, non vi sarebbe alcuna esperienza etica possibile – vi sarebbero solo compiti da realizzare.
Ciò non significa, tuttavia, che l’uomo non sia né abbia da essere alcunché, ch’egli sia semplicemente consegnato al nulla e possa, pertanto, a suo arbitrio decidere di essere o non essere, di assegnarsi o non assegnarsi questo o quel destino (nichilismo e decisionismo si incontrano in questo punto). Vi è, infatti, qualcosa che l’uomo é e ha da essere, ma questo qualcosa non è un’essenza, non é, anzi, propriamente una cosa: é il semplice fatto della propria esistenza come possibilità o potenza. Ma appunto per questo tutto si complica, appunto per questo l’etica diventa effettiva” 1.
L’Hamlet2 messo in scena dalla compagnia teatrale parmense Lenz Rifrazioni, propone una questione estetica e etica che collima perfettamente con quanto scrive Agamben nel suo saggio La comunità che viene. Gli attori che recitano il testo shakespeariano sono tutti ex lungo degenti psichiatrici del manicomio di Colorno3,uno dei luoghi storici della rivoluzione basagliana in Italia. Gli attori sono definiti attori sensibili trovando una modalità di rappresentazione di una condizione di centralità esistenziale dell’esperienza teatrale che li caratterizza. Agamben dice che il problema di fondo non è capire quale è il “destino” da compiere ma piuttosto propne che l’etica si manifesti nel riconoscimento del potenziale. L’approccio che Lenz Rifrazioni nel loro laboratorio ormai decennale hanno avuto con gli ex pazienti di Colorno, è caratterizzato proprio da questo riconoscimento di un potenziale che, scevro da qualsiasi moralismo, lascia che la malattia stessa possa esprimere in ciascun singolo individuo/attore. Gli ex pazienti non sono quindi esecutori di un testo ma autori/attori che in corso d’opera sovrappongono porzioni del testo a porzioni della loro stessa vita, riconoscono in frammenti di quel racconto di dolore e follia che è l’Amleto pezzi disconnessi, ricordi, phantasmata,della loro stessa vita. Non si cade mai nel biografismo, gli attori non usano il testo per fare una diegesi esplicita né della loro condizione di “malati” né delle esperienze di cura conseguenti, ma piuttosto sfocano il testo shakespeariano, lo fanno tremare leggermente, immettendo elementi di turbamento che alludono più o meno esplicitamente a loro esperienze vissute. Non a caso Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, hanno scelto per la sola figura di Amleto tre diversi attori (Barbara Voghera, Paolo Maccini e Enzo Salemi) che lo interpretano in diversi momenti, quasi a voler mostrare come proprio questo simbolo “classico” della follia della letteratura occidentale in realtà sia indefinibile, derivi anzi la sua marginalità proprio dall’impossibilità di essere sempre spiegato e impersoni allo stesso tempo tutte le nostre paure e ossessioni culturali collettive.
Ciascun attore che lavora in questo Hamlet ha avuto ed ha la possibilità di introdurre continue variazioni al testo e alla stessa messa in scena, inlive, ma restando in uno schema drammaturgico che non perde mai il ritmo registico, che non sbava mai nella deriva personalistica, e compie appunto alla perfezione quell’etica del potenziale del singolo. Parlando con Federica mi sono resa conto come questo Hamlet ha almeno tre livelli di variabilità: lo spazio in cui viene rappresentato, le variabili diegetiche e testuali degli attori, la presenza/assenza dell’immagine differita del video.
In molta parte dello spettacolo accanto alla presenza fisica degli attori, o in loro assenza, vengono mandate delle opere video, sempre proiettati in grandissime dimensioni, con scene girate con i medesimi attori partecipanti, truccati nella stessa maniera, che enunciano come un secondo livello inconscio, o almeno invisibile, della scena a cui si assiste.
I video funzionano come veri e propri congegni rivelatori che rendono ipervisibile lo stesso processo laboratoriale, seppure non sono affattobackstage documentari, ma piuttosto pause di riflessione che aprono flussi molto intimi tra i registi e gli attori, tra. Gli attori e i loro personaggi. Nello stesso tempo sono tracce di un vivere che entra prepotentemente in scena, per cui a volte alcuni attori ripresi non sono in scena perché la malattia impedisce loro di essere lì fisicamente, o in casi ancora più drammatici, sono deceduti nel frattempo. Questa visibilità estrema propone un secondo livello di manifestazione di una “comunità” che esce dall’istituzionalizzazione violenta della comunità imposta, dalla comunità cosiddetta terapeutica, che nasce già dalla definizione massificata, standardizzata, di normalità e di devianza. La “comunità che viene” lavora sulla possibilità di rendere visibile l’invisibile, dove l’invisibile non è semplicemente la massa di persone tenute al margine dalla malattia, ma la loro impossibilità di essere considerati come potenziali portatori di un modello di vita che eluda le regole della “normalità”. Dunque Lenz Rifrazioni non mostra coloro che sono costantemente rimossi o nascosti semplicemente, ma espone con forza, con veemenza, il loro potenziale narrativo che prescinde dalle regole imposte dal testo e nel farlo al contempo lo esalta, gli dona una vita nuova. Mi è apparsa davvero emozionante la scelta di porre il noto monologo di Amleto dell’essere o non essere, alla fine dello spettacolo, recitato da Barbara Voghera, piccola piccola, quasi spersa tra gli stalli dell’immenso Teatro Farnese, con una variazione essenziale nel testo che dice: “io qui, non qui”. L’aggiunta del “qui” pone la questione essenziale della presenza intesa appunto come possibilità di esistere, di nuovo non nel senso del riconoscimento statutario di un diritto umano, ma come individuazione di un elemento choc di rottura che arriva da una narrazione di sé che non si omologa alle regole ma ne disegna di proprie. Dunque l’essere in presenza per questi attori è già un dato essenziale rispetto a una condizione sociale costante di cancellazione,  rimozione e persino segregazione vera e propria. Ma ciò che rende quel “qui” ancora più forte è, in questa tappa parmense dello spettacolo, la necessità imposta allo spettatore di posizionarsi continuamente, inteso in almeno due sensi. Lo spettacolo si sposta fisicamente da un ambiente ad un altro e costringe gli spettatori non tanto ad essere retoricamente attivi nel loro ricercare in ciascuna tappa il posto “ideale” della visione, ma piuttosto esalta il loro senso di disagio, impone una scomodità fisica, corporea che si confronta sottilmente con il costante disagio di chi ha dovuto abitare un corpo che gli appartiene ma che le strutture sociali tendono ad occupare abusivamente, a colonizzare con la “cura” e la reclusione. In altre parole il continuo confronto nello spazio condiviso tra osservatore e osservato improvvisamente si ribalta, e chi normalmente è l’oggetto di studio di una cultura, quella occidentale, fondata sull’osservazione scientifica come fonte di esercizio di potere, viene mostrato, ipermostrato non più in quanto oggetto ma in quanto soggetto, attore che ridisegna lui, questa volta, lo spazio nel quale muoverci. La seconda accezione di posizionamento che quest’opera richiede è fortemente etica: il nostro innegabile e malcelato senso di imbarazzo deriva dal fatto che siamo entrati a vedere non una delle tante versioni di Hamlet, ma una messa in scena di attori ex degenti di un manicomio che recitano Hamlet. Solo l’abbattimento del pudore di dichiarare la nostra, o almeno per certo la mia, pre-visione dello spettacolo nel quale il focus era premeditatamente più la storia nascosta degli attori che la drammaturgia shakespeariana, permette un posizionamento vero. Dico questo perché fin dalle prime battute ciò che emerge prepotente, contro ogni nostra/mia pre-visione è la traduzione straordinaria e innovativa che gli attori sensibili danno dell’Amleto. Aneta Mancewicz, studiosa shakespeariana, nell’incontro che ha seguito lo spettacolo, curato da Gianni Manzella, a cui ho partecipato, ha posto l’accento proprio sulla straordinarietà dell’importanza della traduzione dei testi di Shakespeare che sono sempre e soltanto traduzioni. Questa traduzione di Hamlet presuppone ben tre livelli di “riscrittura”: quella di Francesco Pititto, quella condivisa con gli attori che prevede loro costanti interventi di modifica e quella della compresenza fisica tra corpi attoriali, corpi degli spettatori e corpi dei medesimi attori in video. Dico questo perché uno dei grandi tabù della psichiatri prima di Basaglia era proprio la connessione corpo-mente nei contesti di reclusione manicomiale. L’umiliazione del corpo,attraverso la mancanza di cura era uno dei sistemi di coercizione più violenta. Senza entrare in ambiti che prescindono dal contesto di questo articolo, la psichiatria attribuiva alle normali prassi di decorso della malattia l’impossibilità di trattenere escrementi, l’aumento sconsiderato del peso fino all’obesità,  la produzione di cattivi odori corporei. In realtà l’annullamento del corpo come elemento vivo e di bellezza era un sistema di coercizione potente che riducendo a zero l’autostima permetteva il controllo. Basaglia racconta come nei manicomi si potesse andare in bagno solo accompagnati e spesso alla richiesta del malato si faceva attendere un tempo così lungo da costringerlo all’umiliazione del farsi i bisogni addosso che conduceva il malato stesso a un non controllo forzato. Basti pensare che come elemento ambientale violentissimo i manicomi era cosparsi a terra di segatura lasciando presupporre che i malati lasciando i loro bisogni ovunque dovessero vivere come in una stalla per animali. Basaglia scrive: “Se l’incontro con il malato mentale si attua sul copro,  non si può che attuarlo su un corpo che si presume malato, operando un’azione oggettivante di carattere preriflessivo, da cui si deduce la natura dell’approccio da stabilire: in questo caso si impone al malato il ruolo oggettivo sul quale verrà a fondarsi l’istituzione che lo tutela.
Il tipo di approccio oggettivante finisce quindi per influire sul concetto di sé del malato, il quale – attraverso  un tale processo -non può non viversi che come corpo malato, esattamente nel modo in cui è vissuto dallo psichiatra e dall’istituzione che lo cura”4. Questa visione è fondamentale per capire come l’esposizione dei corpi nei video in Hamlet di Lenz Rifrazioni non è una ostentazione voyeristica, una sorta di “zoo umano” ottocentesco, ma al contrario mostra una riappropriazione schietta, decisa del corpo del “malato” come corpo vivente, come corpo senziente. In una delle scene più commoventi e potenti Enzo Salemi compie alcune azioni davanti a una grande statua antica che rappresenta l’immagine principe del dio virile, la potenza del corpo maschile proprio come ostentazione di sé. Alle sue spalle corre un video che mostra lo stesso attore che si fa una lunga doccia, accarezzandosi e lavandosi con delicatezza il corpo totalmente nudo e mostrandolo nell’evidenza del suo gigantismo. Questa sua lunga e lenta scena di piacere, e insieme come di stordimento, ridona al corpo l’enfasi dello spazio senziente, mostra un lato di sensualità che in ogni forma di reclusione e oppressione è negata, o peggio patologizzata. Il video reintroduce tra gli altri il principio del piacere, restituisce a Enzo e a noi la virilità di un corpo che compie una sorta di rito iniziatico che nella realtà della sua vita di ex-recluso coincideva con una pratica dell’umiliazione e della cancellazione del corpo stesso.
All’interno dello spettacolo ciascun attore propone una sorta di ritornello stilistico, una ritornanza continua che alla fine ne definisce uno stile recitativo, un’attitudine in scena.  Un gesto reiterato che serve come ad imprimere in chi guarda la chiara sensazione che ciascun attore sensibilesta vivendo un “suo” Amleto, come sempre è nel teatro, e che nella nostra memoria resteranno stampati dei dettagli che saranno per noi quel dato Amleto e non un altro. Il modo di recitare intenso quasi iroso di Barbara Voghera, il silenzio spesso accompagnato da gesti reiterati di Enzo Salemi, lo sguardo con una mimica facciale quasi assente di Paolo Maccini, i refrain verbali e gestuali di Delfina Rivieri, l’immobilità forzata  di Franck Berzieri, non sono i limiti ma sono le variabili su cui l’intera compagnia e gli stessi attori hanno lavorato. Il filosofo Michel Foucault, nel suo saggio Gli anormali, tratto dai testi dei suoi corsi tenuti al Collège de France tra il 1974 e il 1975, analizza la costruzione da parte della psichiatria e della giurisprudenza della figura dell’anormale. Scandagliando le diverse declinazioni che la legge e la psichiatria hanno attribuito alla figura del mostro, dell’anormale, del deviante, Foucault dimostra come le diverse fisionomie sia morali, che fisiche di questi, siano funzionali alla necessità del controllo totale che la società normativa del XIX secolo impone. In altre parole l’anormale è colui che infrange la “norma di natura” cioè discute la legge che la cultura occidentale, prima illuminista e poi positivista ha disegnato come naturale. “La mostruosità, invece, è quell’irregolarità  naturale tale per cui il diritto si trova rimesso in questione, non riesce a funzionare. Il diritto è obbligato a interrogarsi sui propri fondamenti e anche sulla propria pratica; oppure è obbligato a tacere, o a rinunciare, o a fare appello a un altro sistema di riferimento; oppure deve inventare una casistica. Il mostro in definitiva, è la casistica necessaria che il disordine della natura fa entrare nel diritto.”5. Il processo innestato da Lenz Rifrazioni ha trasformato la “casistica” del disordine degli “anormali” in una forma attoriale e autoriale che non ha messo in crisi la “norma” della regia ma l’ha trasformata in un’espressione potente della differenza, della mutazione continua, dell’esperienza di vita non come (auto)biografismo tout court ma come rielaborazione costante della tragedia di Hamlet che è di per sé la figura mitica del mostro assassino che uccide e fa morire tutti. Come dice la stessa Federica Maestri si è messo in scena un sottotesto, non un controtesto dell’Amleto.

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1 G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p.39.
2 Hamlet, Compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma, creazione Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, Palazzo Farnese e Palazzo della Pilotta, Parma, luglio 2012.
3 Il laboratorio iniziato da Lenz Rifrazioni dal 1999, comprende e ha compreso ex lungo degenti psichiatrici del manicomio di Colorno, con alcuni ospiti della Comunità Terapeutico-Riabilitativa di Pellegrino Parmense in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale della Ausl di Parma.
4 F. Basaglia (a cura di) L’istituzione negata, BC Dalai Editore, Milano 2010, p. 118.
5 M.Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France. 1974-75 Feltrinelli, Milano 2006, p.64 (M.Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France. 1974-75, Seuil Gallimard, Paris 1999).