Benché radicata nella tradizione acustica, la distinzione tra suono e rumore si rivela controversa se osservata oltre il piano strettamente fisico. Secondo la definizione classica, il suono sarebbe il risultato di vibrazioni periodiche, mentre il rumore deriverebbe da oscillazioni erratiche, intermittenti o statisticamente aleatorie, e la differenza tra le due categorie troverebbe un sostanziale fondamento nell’opposizione tra suoni morfologicamente semplici e suoni complessi [1]. Tuttavia, tale distinzione appare fragile non appena si consideri la dimensione percettiva: oltre i confini della fisica acustica, infatti, è consuetudine definire rumore qualunque fenomeno sonoro percepito come sgradevole o indesiderato. Talvolta è l’intensità – e quindi il volume – con cui un suono si propone, a orientarne la collocazione nel dominio del rumore o del suono: in questo senso, suono e rumore non si configurano come categorie ontologiche bensì come attributi assegnati culturalmente, storicamente e situazionalmente.
La prospettiva semiologica di Jean-Jacques Nattiez offre un quadro interpretativo piuttosto utile a comprendere tale relatività: nel suo modello tripartito [2] – poietico, estesico e neutro – emerge chiaramente come il valore di un evento sonoro non dipenda unicamente dalle sue caratteristiche fisiche, ma dall’interazione tra produzione, percezione e significazione. Una simile concezione trova un punto di contatto con le riflessioni di Jacques Attali, che in Noise: The Political Economy of Music interpreta il rumore come anticipazione della musica, spazio liminare in cui si sperimentano nuove forme di ordine e di senso. Sia per Nattiez che per Attali, dunque, il rumore non è un’entità autonoma ma un campo di possibilità estetiche e sociali: ciò che in un’epoca – o contesto – appare come disturbo, in un’altra può trasformarsi in risorsa estetica o comunicativa.
Questa criticità si riflette con particolare evidenza nel concetto di soundscape [3] proposta negli anni Settanta da Raymond Murray Schafer e dal World Soundscape Project (WSP) [4]. Attraverso un’ambizione ecologica e pedagogica – preservare l’equilibrio sonoro dei luoghi contro l’inquinamento della modernità industriale – il gruppo di ricerca canadese ha aperto uno spazio d’indagine imprescindibile: concepire l’ambiente acustico come un sistema complesso di eventi percepiti e interpretati in relazione ai contesti culturali e sociali, oltrepassando finalmente la prospettiva fisico-acustica e collocando i fenomeni sonori all’interno di pratiche d’ascolto e processi interpretativi. Tuttavia, uno dei limiti strutturali della ricerca del World Soundscape Project risiede nella sua ortodossia kantiana, una visione che tende a considerare l’ambiente esterno come un ente separato dall’osservatore umano, un oggetto da registrare e analizzare in termini discreti, anziché come un flusso sonoro vissuto e condiviso, in cui soggetto e ambiente si fondono.

In Four Objections to the Concept of Soundscape, l’antropologo britannico Tim Ingold, offre un’estensiva riflessione critica sull’uso del concetto di soundscape, mettendo in luce i vincoli teorici e concettuali della nozione così come è stata tradizionalmente formulata. Ingold contesta innanzitutto la tendenza a trattare il suono come un oggetto comparabile a un paesaggio visivo da osservare; l’esperienza sensoriale è invece, per Ingold, intrinsecamente integrata: separare il suono dagli altri aspetti dell’ambiente percepito implica una frammentazione artificiosa della percezione, che non rispecchia la modalità con cui gli esseri umani fanno realmente esperienza del mondo. Il suono è invece un fenomeno immersivo e partecipativo, parte di un flusso esperienziale – simile al vento o alla luce – che ci attraversa e con cui entriamo in relazione, piuttosto che un’entità stabile da studiare in isolamento. Ingold evidenzia, inoltre, come il termine stesso soundscape, suggerisca una prospettiva distaccata e oggettivante, che genera classificazioni e categorie statiche, spesso ispirate alla distinzione tra elementi naturali e antropici o tra suono e rumore. Risulta evidente come questa fissità concettuale non restituisca appieno la fluidità e la dinamicità dei fenomeni sonori, che mutano continuamente nel tempo e nello spazio e la cui percezione dipende da fattori culturali e contestuali.
In sintesi, Ingold propone di ripensare il rapporto tra suono e ambiente in termini fenomenologici e relazionali: il suono non è una proprietà oggettiva del mondo da osservare, né un paesaggio separato, ma un mezzo attraverso cui si vive e si interagisce con l’ambiente. Tale prospettiva invita a considerare l’esperienza sonora come un continuum in cui percezione, significazione e contesto sono inseparabili, superando la rigidità e la semplificazione implicite nel concetto tradizionale di paesaggio sonoro. Interessante, a tal proposito, l’apporto teorico successivamente elaborato da autori come Agostino Di Scipio e Brandon LaBelle. Entrambi prediligono al termine soundscape la formula background noise, definendo lo stesso come un flusso continuo – e spesso trascurato – di suoni che accompagna la vita quotidiana. Di Scipio ne sottolinea la dimensione ecologica e processuale, evidenziando come l’ascolto si costruisca sempre in relazione a un campo sonoro ambientale che non può essere ridotto a mera interferenza. LaBelle, da parte sua, accentua la valenza sociale e politica di questi suoni ordinari, che concorrono a definire la spazialità urbana e le pratiche di convivenza. In questa prospettiva, il rumore cessa di essere ciò che disturba: diventa parte integrante del tessuto sonoro e, come tale, costitutivo dell’identità acustica dei luoghi.
La linea di confine tra suono e rumore si mostra, quindi, estremamente permeabile e continuamente negoziata. Più che di categorie fisse, potremmo allora parlare – amplificando la visione di Attali – di costrutti culturali definiti dall’ascolto e dalle pratiche sociali che lo modellano. Il rumore di fondo, lungi dall’essere un semplice sfondo neutro, si rivela il luogo stesso in cui tale negoziazione si compie: il tessuto acustico in cui l’estetica, la politica e la percezione si intrecciano, ridefinendo costantemente ciò che definiamo suono. Ne consegue che, nel pensiero contemporaneo, il rumore si emancipa definitivamente dall’essere disturbo o interferenza, per venire largamente accettato come un segnale che rompe l’ordine del percepito, disarticolando la neutralità apparente dello spazio. In questo senso, il rumore non inquina il paesaggio ma lo rivela come corpo stratificato, restituendone tensioni, relazioni instabili e memorie sotterranee, rifiutando ogni linearità narrativa. In questa prospettiva – intesa come rifiuto della nozione di soundscape come mera cornice estetizzata, separata dal vivente – l’ascolto non può essere ridotto a una semplice rappresentazione ma si offre, al contrario, come modalità di immersione e coinvolgimento corporeo. Ed è proprio nell’ascolto incarnato, mediato dal corpo, che si apre la possibilità di instradarsi verso pratiche di ascolto ecologiche [5].
«Walk so silently that the bottom of your feet become ears» (Oliveros, 2005). È forse la frase che più riverbera tra gli scritti di Pauline Oliveros, un suggestivo invito a fondere corpo e ascolto in un unico gesto discreto. Tuttavia, ridurre le pratiche di Deep Listening [6] – come l’autrice-compositrice stessa suggerisce – a un moto di trascendenza sensoriale appare curiosamente fuorviante: i suoi esercizi, difatti, orientano costantemente il fruitore verso la piena consapevolezza della percezione acustica come fatto profondamente radicato nella fisicità dell’ascolto. Questa frattura lascia spazio a un interessante parallelo con le teorie ecologiche della percezione [7] promosse da James J. Gibson, secondo cui l’ascolto si configura di per sé come un “sistema percettivo globale, non come un canale sensoriale”: si ascolta, puntualizza Gibson, attraverso un dispositivo “orecchie-nella-testa-sul-corpo-poggiante-sul-suolo”. In modo radicale e disincantato, Gibson ci suggerisce, quindi, che il nostro ascolto è sempre mediato dal corpo, che rappresenta quell’interfaccia di transizione tra coclea e mondo.
La tradizione inaugurata da Murray Schafer e dal World Soundscape Project ha certamente reso udibile la dimensione ecologica dei paesaggi sonori, ma la loro prospettiva rimane vincolata a un paradigma mappocentrico, fondato sull’idea di classificare, ordinare e preservare i suoni del mondo in una prospettiva universale, secondo il modello predatorio della view from above cartografica. Per secoli «abbiamo usato la geografia come una macchina di controllo, una tecnica violenta per descrivere e gestire il territorio, i movimenti umani e animali, gli spostamenti degli eserciti, i flussi commerciali, i cambi di potere, le grandi idee, le innovazioni artistiche, le mode, e a volte perfino le passioni e le paure» (Meschiari, 2025). La cartografia classica, in sostanza, è figlia di una logica di potere atta a fissare confini, stabilire priorità, rendere leggibile ciò che altrimenti sfuggirebbe al controllo. Applicare questo paradigma alle pratiche aurali, significa quindi ridurre l’ascolto a mera funzione di raffigurazione formale, trasformandolo in un’esperienza estrattiva che sottrae segnali dal loro contesto vitale per reinserirli in un dispositivo ordinante, incapace di restituire la loro densità pulsante.
Contro questa visione verticale e panottica, occorre quindi allineare le nostre pratiche di ascolto con l’ipotesi di una cartografia situata, intesa come un contro-dispositivo che non congeli il paesaggio in una forma di pacificata purezza: una prospettiva che non riduca ma moltiplichi, che non cataloghi i suoni per proteggerne una presunta autenticità originaria, ma al contrario ne accolga l’eterogeneità e l’instabilità, che resista all’ordine astratto per restituire la materialità vissuta. Da qui possiamo nuovamente entrare in dialogo con Tim Ingold, che definisce il paesaggio non come superficie ma “taskscape” (Ingold, 2000), un tessuto di azioni, temporalità e processi. Cartografare, in questo senso, non è osservare ma camminare, sostare, deviare: tracciare sentieri effimeri che resistono alla fissità. Da questa prospettiva, il paesaggio diviene un corpo attraversato da tensioni che si manifestano attraverso il rumore: fratture, attriti, conflitti che le mappe non possono neutralizzare né ricomporre. È una pratica disordinata, attraversante, che restituisce al paesaggio la sua opaca complessità e ci ricorda come lo stesso «non sia mai completo, ma sempre in divenire, poiché lo si costruisce camminando» (Ingold, 2000). Nel rumore si concentra, quindi, la possibilità di una contro-archeologia acustica: un’indagine non lineare, non-monumentale, che si serve di tecniche e tecnologie d’ascolto – non necessariamente estrattive, e quindi non finalizzate alla registrazione – per rinvenire segnali marginali e frequenze residue; rumori che non documentano ma disarticolano, aprono fenditure percettive, mettono in crisi la narrazione ordinata dei luoghi rendendo udibili le tensioni tra ecosistema e infrastruttura, tra presenza antropica e agentività non umana.
Sebbene restino esperienze parzialmente ancorate alla prospettiva mappocentrica del World Soundscape Project, nei river archives di Annea Lockwood [8], così come nelle soundwalks [9] di Hildegard Westerkamp, fino alle derive elettromagnetiche [10] di Christina Kubisch, il paesaggio viene esplorato non per produrre un’immagine ordinata, ma per inquietarne la percezione. Il rumore opera in queste pratiche come vibrazione eccedente che devia e resiste alla cattura. Ciò che ne emerge non è una narrazione compiuta del paesaggio, ma un mosaico di fenditure, un orizzonte fratturato che lascia emergere le tensioni tra permanenza e trasformazione: non c’è paesaggio puro, non c’è suono originario da proteggere. Accogliere questa idea di paesaggio come archivio in tensione, significa allora rifiutare la tentazione della trasparenza. In questo contesto, il contributo delle teorie postumaniste risulta particolarmente rilevante: Karen Barad evidenzia il peso dell’agentività della materia (Barad, 2007), sottolineando come ogni corpo non sia passivo, ma vibrante, capace di interferire e di partecipare attivamente a un campo di forze. Analogamente, Timothy Morton, parlando di iperoggetti (Morton, 2018), descrive entità ambientali di dimensioni e temporalità così vaste da eccedere la nostra percezione immediata, pur avvolgendoci e condizionando le nostre esperienze quotidiane. L’ascolto del rumore diventa allora pratica di alleanza con ciò che sfugge. Non un atto di decifrazione, ma un gesto di co-presenza: stare dentro un campo di intensità in cui umano e non-umano, naturale e artificiale, convivono e collidono.
In questo orizzonte, l’ascolto attivo del paesaggio-rumore non è un fatto estetico, ma una postura politica. Bruno Latour ha mostrato come la modernità si sia costruita separando ciò che è naturale da ciò che è sociale ma la pratica del mettersi in ascolto ci riconsegna un mondo intrinsecamente ibrido dove ecosistemi e infrastrutture antropiche, flussi idrici ed elettrici, agenzia non umana e vibrazioni in fibra ottica si mescolano senza soluzione di continuità. Ascoltare significa, quindi, riconoscere questa coabitazione forzata e farne materia di alleanza: stare col problema. Questa prospettiva apre a una nuova possibilità di occupare il mondo, non più come padroni e cartografi, bensì come coabitanti sensibili. Ma politicizzare l’ascolto significa anche opporsi alla mercificazione del paesaggio acustico, quando il sound design urbano tende a normalizzare e addomesticare il suono, eliminando ciò che disturba per produrre un ambiente artificiosamente pacificato. Accogliere il rumore vuol dire, allora, riconoscere la presenza di conflitti sociali, disuguaglianze ambientali e speciste, fratture storiche. Pensiamo al rumore delle periferie urbane, al caotico vociare nelle – poche – spiagge libere, al fragore delle proteste: segnali che disturbano perché mettono in crisi l’ordine imposto. L’ascolto si fa allora gesto di cura e insieme di resistenza: cura di ciò che rischia di essere silenziato, resistenza contro l’appiattimento normativo. Lasciare libero il paesaggio, quindi, non vuole solo essere un appello ecologico – o banalmente poetico – ma un invito a lasciare che il rumore ci attraversi e disorienti, obbligandoci a riconoscere la pluralità dei mondi.
Note
[1] Nella tradizione acustica, i suoni semplici sono caratterizzati da una singola frequenza fondamentale e da un’onda periodica regolare, mentre i suoni complessi risultano dalla combinazione di più frequenze, armoniche o non armoniche, producendo forme d’onda timbricamente articolate.
[2] Jean-Jacques Nattiez, riprendendo il modello semiologico di Molino, distingue tre livelli nell’analisi musicale: il poietico, relativo ai processi di produzione; l’estesico, legato ai modi di ricezione e interpretazione; e il neutro, che concerne la traccia musicale in sé, indipendente sia dalle intenzioni dell’autore sia dalle letture dell’ascoltatore. Cfr.
[3] Schafer definisce il soundscape come l’insieme dei suoni, naturali o prodotti dall’uomo, che caratterizzano un ambiente e che vengono percepiti e interpretati dagli esseri umani in relazione a contesti culturali e sociali.
[4] Il World Soundscape Project (WSP), fondato da R. Murray Schafer negli anni Settanta presso la Simon Fraser University in Canada, si proponeva di studiare sistematicamente l’ambiente sonoro urbano e rurale, registrando e analizzando i suoni come elementi significativi della vita sociale e culturale. Il progetto ha contribuito a sviluppare la teoria del soundscape e metodologie di ascolto critico, sottolineando l’importanza di comprendere i fenomeni sonori non solo in termini fisici, ma anche percettivi e culturali.
[5] A scanso di equivoci, mi sembra opportuno ricordare che il termine ecologico è qui inteso non solo nella sua accezione strettamente biologica, ma come riferimento a un approccio che considera i fenomeni – percettivi, culturali o sociali – come parte di un sistema di relazioni e interdipendenze tra soggetto e ambiente.
[6] Con Deep Listening Oliveros designa una pratica di ascolto meditativo, sviluppata a partire dagli anni Ottanta, volta ad ampliare la consapevolezza sonora e a favorire un rapporto più profondo e relazionale con l’ambiente acustico.
[7] In quest’opera Gibson elabora la nozione di ecologia percettiva, sottolineando come la percezione non sia un processo interno e isolato, ma un’interazione diretta e situata tra organismo e ambiente, fondata sulle affordances — ovvero le possibilità d’azione offerte dal contesto ambientale.
[8] Serie di registrazioni ambientali realizzate tra il 1982 e il 2013 (Hudson, Danube, Housatonic River), presentate come composizioni e installazioni sonore; il progetto tematizza l’ascolto ecologico e relazionale, invitando a ascoltare con i fiumi, e non semplicemente ascoltare il loro suono.
[9] Pratiche di ascolto ambientale sviluppate a partire dagli anni Settanta, concepite come esperienze guidate in cui i partecipanti sono invitati a prestare attenzione attiva e critica ai suoni del proprio ambiente.
[10] Il riferimento è a Electrical Walks (dal 2003), una serie di soundwalks in cui l’artista invita i partecipanti, muniti di speciali cuffie a induzione magnetica da lei stessa progettate, ad ascoltare i paesaggi elettromagnetici urbani generati da infrastrutture tecnologiche, dispositivi elettronici e reti invisibili di comunicazione.
Bibliografia
Attali, J., Noise: The Political Economy of Music, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1985.
Barad, K., Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, Durham, 2007.
Di Scipio, A., Polveri Sonore. Una prospettiva ecosistemica della composizione, La camera verde, Roma, 2014
Gibson, J.J., L’approccio ecologico alla percezione visiva, Mimesis, Milano, 2014.
Granö, J.J., Pure Geography, The Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1997.
Haraway, D., Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, in Feminist Studies, vol. 14, n. 3, 1988.
Haraway, D., Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
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Ingold, T., The Perception of the Environment: Essays on Livelihood, Dwelling and Skill, Routledge, Londra, 2000.
Jullien, F., Vivere di paesaggio o l’impensato della ragione, Mimesis, Milano, 2017.
LaBelle, B., Background Noise: Perspectives on Sound Art, Bloomsbury Academic, Londra, 2015.
Meschiari, M., Terre che non sono la mia. Una controgeografia in 111 mappe, Bollati Boringhieri, Torino, 2025.
Meschiari, M., Neogeografia, per un nuovo immaginario terrestre, Milieu Edizioni, Milano, 2019.
Morton, T., Iperoggetti: filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo, Nero, Roma, 2018.
Nattiez, J.-J., Il discorso musicale: per una semiologia della musica, a cura di Rossana Dalmonte, Einaudi, Torino, 1987.
Oliveros, P., Deep Listening: A Composer’s Sound Practice, iUniverse, Lincoln, 2005.
Schafer, R. M., Il paesaggio sonoro, Ricordi LIM, Lucca, 1985.
Mauro Diciocia è artista sonoro e ricercatore indipendente. La sua pratica esplora le relazioni tra suono e spazio, linguaggi e narrative, attraverso pratiche condivise di ascolto attivo, sound art e soundscape composition. Si è esibito estensivamente in Europa come solo performer, e collaborato con numerosi tra artisti visivi e filmmakers.
