PERFORMING HISTORY
ISEGORIAE. Le storie nel film Stanze dei Fratelli De Serio
di Viviana Gravano

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Stanze

Diverse figure di uomini e una sola donna, per lo più in piedi, in un ambiente spoglio e semi abbandonato, recitano la propria storia di migrazione, paure passate e paure del futuro. Unico passaggio tra l’immagine di una persona e l’altra una variazione di luminosità, che va verso il nero o verso un bianco abbacinante che mangia la scena. Le varie figure recitano in una sorta di particolare forma poetica, brevi frasi ripetute, la chiara sensazione che dietro il racconto ci sia una trama poetica e narrativa. Nessun cedimento alla pietà, mai uno sguardo “patetico”, ma un pathos che produce empatia. Molta bellezza, come a dire con forza che il dolore non si associa allo squallore per rendersi più “vero”. Attori che giocano un ruolo. Storie che appaiono vere ma rimesse in scena. Poi improvvisamente un rapido senso di straniamento, le parole cambiano, sono uguali ma leggermente diverse: la stessa sofferenza ma come una sottile variazione temporale.
Questa breve descrizione è la sintesi della folgorante impressione che ho avuto assistendo alla proiezione del film dei Fratelli Massimiliano e Gianluca De Serio, Stanze, presentato dai due artisti nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma, nell’ambito del workshop dell’artista Peter Friedl organizzato dall’Istituto Svizzero di Roma, ospiti del Collettivo di autoformazione studentesca della facoltà. Il video viene proiettato in condizioni non esattamente ideali perché dovrebbe avere un suono spazializzato e perché la proiezione ha un riflesso in basso dovuto a un mobile di legno lucido che sta sotto lo schermo. Ma al contempo è proiettato nella condizione ideale perché siamo in una facoltà di Scienze Politiche e alla presenza di un comitato di autoformazione studentesca.
Stanze é un cortometraggio girato dai Fratelli De Serio nella vecchia Caserma La Marmora di via Asti a Torino. Le persone che raccontano sono migranti somali residenti a Torino ospiti per un certo tempo nella stessa Caserma adibita a Centro di Accoglienza. I testi che recitano sono le loro vere storie ma riscritte da loro stessi, con l’aiuto degli artisti, utilizzando una antichissima tecnica della poesia solo orale somala, spazzata via dall’arrivo forzato della lingua scritta imposta dal colonialismo, basata su una serie di regole di metrica. Il testo sul finire del film non è più quello della storia dei migranti ma sono brani tratti dai documenti testimonianza dei giovani partigiani e prigionieri politici torturati e uccisi nella stessa Caserma La Marmora, fatta costruire in epoca coloniale e poi sede della Guardia Nazionale Repubblicana in periodo fascista.
I De Serio ci dicono che il film è stato girato clandestinamente nella caserma, in un solo giorno, che non esiste in pratica montaggio perché non c’è stata la possibilità di girare più volte la scena e, le dissolvenze al nero e al bianco che vediamo, sono state fatte direttamente in macchina riprendendo. I testi invece sono il risultato di mesi e mesi di lavoro congiunto tra le persone somale e i De Serio, che ha prodotto una scrittura condivisa sia per le loro storie sia per i documenti trovati in archivio dai due artisti delle vittime del nazi-fascismo rinchiuse nella caserma, tratti da un processo svoltosi nel 1946 a carico dei fascisti attivi in quel luogo.


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Recitare/Performance/Play

La prima domanda che mi faccio e che fa qualcuno dal pubblico ai De Serio è: quanta parte hanno messo i migranti somali e quanta loro nella stesura del testo? Ma nel momento stesso in cui loro rispondono mi sembra che la domanda sia senza senso. Se la storia è sempre una negoziazione perché è sempre la mediazione tra il “testimone” e chi poi la recita, perché ci chiediamo solo davanti a una storia di migranti se ci sia potuta essere una sopraffazione da parte degli artisti? Ce lo chiediamo perché la logica impressa nella nostra visione coloniale, di chi la storia è abituata a scriverla e non a subirla, pensiamo sempre, più o meno come condizionati da un inconscio collettivo forse più realisticamente culturale, che quando parla chi viene dal mondo dei “colonizzati” parta da uno svantaggio e vada “preservato”. La deriva neo-coloniale sotto mentite spoglie di pensiero post-coloniale è in agguato. Si è smesso da poco di dire “diamo parola”: la parola non la si dà, ciascuno ha già la sua e il fatto che noi non siamo invitati ad ascoltarla non vuol dire che non esca, che non si manifesti. Semplicemente ne siamo esclusi dall’ascolto (brutta e insolita condizione per “noi”!). Dunque perché chiederci se le persone somale che hanno lavorato con i De Serio abbiano davvero potuto esprimere loro stessi? Se gli artisti abbiano “rispettato” le loro storie. Il contatto tra le due parti: tra adulti e ragazzi somali, che hanno traversato deserti e mari, che si trovano a vedere la loro vita come una “storia” e che vengono da un paese a lungo colonizzato; e i Fratelli De Serio artisti italiani, europei, cresciuti in una cultura nata dal pensiero coloniale, attraversata dalla tragedia del Fascismo e del Nazismo e ora creatori di “storie” proprie e altrui. La negoziazione tra queste due parti non richiede un livello di vigilanza perché non c’è nessuna verità, nessuna realtà da raccontare, ma c’è solo da mettere in scena, performare, una delle possibili versioni di molte storie che si incrociano in quei giorni di lavoro e creazione insieme. Dunque la mia, la nostra preoccupazione, di capire subito se i “diritti” dei somali siano stati rispettati equivale a dire che noi già sappiamo come andrebbe giocata la partita tra loro e i De Serio, perché non risulti impari, e per farlo li mettiamo uno di fronte all’altro, in una posizione di frontalità che loro non hanno affatto scelto.
All’inizio di questo paragrafo ho messo tre parole: recitare/performare/play. Credo che le prime due trovino in questo caso di Stanze un senso profondo nella terza. Play certo vuol dire ancora recitare, suonare, ma vuol dire anche giocare. Dunque credo che in Stanze non sono “messe in gioco” solo le vite e le storie delle persone somale che vi compaiono, ma sono “messe in gioco” anche le vite di Massimiliano e Gianluca. Non perché banalmente un artista sempre mette in gioco se stesso quando lavora, ma  perché il film finisce con i ragazzi somali che recitano brani della storia collettiva dei De Serio, brani della memoria della Resistenza. Il gesto potente, il punto di svolta concettuale, emotivo e estetico di questo lavoro è proprio nell’attimo in cui i migranti somali “recitano”, mettono in performance, i testi dei giovani torturati della Caserma La Marmora nel 1944. Quei testi sono la “storia” dei De Serio raccontata da chi quella storia non l’ha vissuta, letta con dolore e partecipazione da chi non c’era, da chi normalmente nel nostro immaginario eurocentrico è l’”oggetto” di questo genere di  storie. Il rovesciamento concettuale è potente e gira a testa in giù tutto il film. La negoziazione tra i De Serio e il gruppo di somali improvvisamente si ribalta di senso: gli attori guardano verso di noi e ci raccontano di noi, soffrono dei “nostri” dolori, incarnano la memoria delle “nostre” sofferenze.
Un ragazzo somalo in piedi in quella stanza è mio zio Dandolo a Roma torturato a via Tasso.
Il suono avvolgente che avrebbe dovuto circondare gli spettatori non ha solo un valore tecnico, ma indica questo senso di accerchiamento, di assedio, di Stanze. Da osservatori e osservati. Da ascoltatori a narrati. In questo “gioco di ruolo” si fa fatica a posizionarsi, ci viene richiesto continuamente di cambiare posto, e per questo nessuno si deve “difendere”, nessuno ha il potere di sopraffare l’altro, perché proprio quando ci stiamo per chiedere, cadendo nella trappola paternalista, quanto della “loro” storia ci sia in quei racconti poetici, “loro” recitano la “nostra” storia.
Che sensazione ci suscita l’idea che dei giovani migranti, giunti in Italia attraverso sofferenze indicibili, siano di qui in avanti i depositari della memoria della sofferenza patita settanta anni prima dalla gente torturata dai nazi-fascisti in Italia?
Può un migrante portare con sé una storia che non sia la sua? Può performare, recitare, mettere in gioco davanti a “noi” il “nostro” passato? Non quello coloniale però che ci lega già in un vincolo di dominato/dominatore, dove il nostro ruolo di detentori del “senso di colpa” ci esonera dal vero rovesciamento di punto vista. Ma un passato che conserviamo gelosamente come “nostro”, un passato che è un’eredità difficile della quale solo “noi” possiamo farci carico. E se discutendo animatamente come tenere viva quella memoria della Resistenza, specie ora che i testimoni del tempo vanno purtroppo tutti morendo, vedessimo passare un ragazzo somalo che si fa carico di quella memoria?
Che magnifica aporia!
Hannah Arendt in un testo frammentario dedicato al significato della politica scrive: “Ma isonomia non significa né che tutti sono uguali davanti alla legge, né che la legge è uguale per tutti; ma solo che tutti hanno pari diritto all’attività politica, che nella polis era prevalentemente un’attività dialogica. Isonomia significa dunque prevalentemente libertà di parola, e in quanto tale equivale a isegoria1. La libertà di cui parla la Arendt non risiede nell’eguaglianza davanti alla legge ma nella possibilità di ciascuno di discutere, confutare, dibattere, con suoi pari. Lo spazio della Caserma La Marmora è trasformato in questo film in una vera agorà, non nel senso che qui i somali hanno diritto di parlare della loro storia liberamente, ma nel senso che qui loro hanno il “diritto” di recitare, di mettere in scena, la “nostra” storia. Le scelte estetiche dei De Serio, le dissolvenze in macchina, l’audio spazializzato aprono un dialogo alla pari, tra pari, con le rime a catena della poesia orale somala pre-coloniale. Così come Gianluca e Massimiliano non avrebbero saputo scrivere da soli quei versi, così gli attori di questo film non avrebbero saputo scegliere le inquadrature o le luci. Qui si discute da pari a pari ciascuno nella propria lingua.
Chiedo a Gianluca perché i somali non guardano quasi mai in macchina durante tutto il film. E lui mi risponde che quel tipo di poesia veniva naturalmente recitata davanti a molta gente. Una sorta di grande comunità immaginaria guarda e ascolta gli attori recitare, e gli attori si rivolgono a loro. Seduti a terra, gambe incrociate, occhi fissi e orecchie aperte, stanno ragazzi e ragazze somali e, qua e là, tra loro vedo giovani italiani, con fazzoletti rossi al collo, con in spalla un fucile o un libro in tasca. Tutti, nella stessa polis, tutti pari tra loro, ascoltano le loro stesse storie recitate.

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Ricostruire/Restituire

In una frase, non ricordo più bene quale fosse esattamente, perché la singola parola mi ha folgorato a tal punto da non riuscire a memorizzare che quella, Gianluca dice: restituire.
Mi continua a girare nella testa la relazione tra ricostruire e restituire. Mi sembra evidente che nel raccontare “la” storia ci verrebbe da dire che si ricostruisce qualcosa, che poi questo ri-costruire abbia molto a che vedere con il costruire mi sembra ormai così assodato da essere ridondante. Quello che invece mi colpisce è questa possibilità di restituire. Un termine già usato spesso in ambito di trattatistica storica ma non con echi etici, piuttosto proprio per raccontare in forma il più possibile “fedele” un fatto nell’ora. Nel dizionario Treccani ci sono ben tre accezioni del termine: una allude al ridare una cosa data in prestito, quindi far tornare al suo legittimo proprietario qualcosa di cui siamo venuti in possesso più o meno legalmente; nella seconda si parla di ridare qualcosa di perduto, anche in senso metaforico come per serenità, la salute, il sorriso e simili; nella terza si parla di contraccambio, cioè di utilizzare un oggetto o un’azione dopo averne ricevuta una a nostra volta. Ora guardando all’etimologia latina re-statuěre vuol dire ri-collocare, cioè ridare il posto originario o iniziale a qualcosa in senso lato, ma vuol dire anche dare un posto stabile a qualcosa che chiede di stare, di collocarsi. La parola di Gianluca mi sembra quindi quanto mai pregnante per Stanze e ne copre in sostanza ogni sfumatura di significato. Le storie dei migranti ci sono date in “prestito” per poter capire, ma vanno restituite ai loro proprietari. Ma nello stesso tempo la “nostra” storia, che abbiamo dato in prestito alla loro voce perché la facessero loro, ci deve essere restituita, e proprio quella restituzione ci spiazza. I migranti Somali ci restituiscono la memoria di atti di processi realizzati contro gli aguzzini fascisti celebrati nel 1946, e perduti nel nostro dimenticatoio italiano che tutto seppellisce. Ma le storie di quei migranti ci restituiscono anche la storia di un’Italia colonialista a pieno titolo, che fa stragi proprio in Somalia, e che oggi perpetua le stesse strategie razziste con i migranti che arrivano sul suo territorio. Le storie delle persone somale ci restituiscono un’altra storia passata che abbiamo perduto. Il lavoro di Massimiliano e Gianluca con i somali è un’azione di scambio in cui a ciascuna “cosa” data se ne riceve un’altra. I De Serio danno in mano ai ragazzi la loro storia di giovani cresciuti in un paese antifascista nella sua Costituzione, ma che non fa i conti con  quel passato fascista, per bocca di chi viene in un paese, l’Italia, che oggi come allora perpetua politiche di emarginazione.
Abbiamo restituito obelischi, opere d’arte, libri, persino figli e persone a vario titolo. Ma come ci sentiamo quando qualcuno ci restituisce la “nostra” stessa storia a parole sue, con i suoi sguardi e con le proprie emozioni, quel qualcuno a cui siamo solo abituati noi a restituire qualcosa, per perpetuare un senso di colpa senza spessore, che non ci costringe mai ad essere nella posizione di “guardati”?
Stanze non risarcisce i migranti somali ma ci fa sedere in cerchio, pari tra i pari, a discutere della violenza fascista e della tratta dei migranti verso l’Italia, dei giovani partigiani torturati alla Caserma La Marmora e dei somali torturati nelle carceri clandestine del deserto libico con strade asfaltate con i soldi degli imprenditori italiani, degli insulti contro gli ebrei del ghetto di Roma e delle frasi razziste giornaliere degli italiani contro i migranti africani. Tutti seduti intorno a noi, in un bodies surround, che ci ha accerchiato durante tutti i 50 minuti della durata di stanze, bisbigliando storie in cui non sapevamo più se eravamo tutti narratori o ascoltatori.

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In copertina frame da Stanze – di Gianluca e Massimiliano De Serio – Videoinstallazione – Italia 2010, 50′

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1 Hanna Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, Torino 2006, p.30.