RELATIONSHIP
Il coraggio del conflitto. Tre esempi di interventi sulla difficult heritage in Italia
di Viviana Gravano

Sharon Mac Donald nel suo fondamentale saggio sulla Difficult Heritage così definisce quei luoghi che presentano una storia “difficile” da ricordare in quanto espressione di un grave trauma collettivo: “It looks at what I call ‘difficult heritage’ – that is, a past that is recognized as meaningful in the present but that is also contested and awkward for public reconciliation with a positive, self-affirming contemporary identity. ‘Difficult heritage’ may also be troublesome because it threatens to break through into the present in the disruptive ways, opening up social divisions, perhaps by playing into imagined, even nightmarish, futures.”1 In che modo la cancellazione di un evento traumatico può servire a dimenticarlo o, al contrario, in che misura proprio la sua rimozione forzata, il suo insabbiamento nella memoria collettiva, genera un effetto opposto che può spingere fino alla sua esaltazione? La mancata rielaborazione di immagini del passato, intesa come vero e proprio rito collettivo, di periodi storici che hanno costruito complesse relazioni tra i membri di una comunità, genera una sorta di eco continua che non smette mai di ripetere, apparentemente alterata, sempre una stessa sigla. Spesso proprio la cancellazione, camuffata dietro senso di colpa o vergogna, appare funzionale a una mitizzazione che finisce per esaltare quell’assenza di memoria lasciando spazio all’immaginario. Questo è quanto accade a proposito della storia recente italiana a iniziare dall’Unità d’Italia, passando per il colonialismo fino agli anni della dittatura fascista di Benito Mussolini. La sistematica cancellazione di una vera e propria iconografia di questi diversi periodi, per motivi diversi ma simili, è la matrice nascosta di una società di oggi profondamente razzista, molto poco multiculturale e spesso ottusamente provinciale. Il colonialismo italiano, così come il fascismo, sembra non aver lasciato nessuna traccia negli immaginari attuali e ne è invece la filigrana costante che si riaffaccia nei contesti più disparati, dal linguaggio quotidiano, alle varie culture di gruppo come quella calcistica, alle varie forme di pubblicità commerciale o di spettacolo televisivo popolare. L’Italia si è autodisegnata come un paese del quale sorridere per le sue nefandezze, come scrive il grande storico Del Boca come titolo di un suo noto libro “Italiani, brava gente?”2. L’italiano è il povero perdente nelle colonie, è il fascista ridicolo ma in fondo bonaccione trascinato dal vero male, cioè dal nazismo. In realtà l’Italia è un paese coloniale fin dalla prima ora, ma la costante rimozione di questo periodo cancella ogni giorno un pezzo di quell’immaginario letterario e visuale che risorge imperterrito sotto nuove forme. Il generale Rodolfo Graziani d’istanza in Africa è stato il primo a far uso di bombe gas contro i civili in Etiopia, è stato inserito dall’ONU nella lista dei criminali di guerra e, attualmente, ha un sacrario monumento che lo celebra ad Affile, piccolo paese del Lazio, inaugurato pochi mesi fa.
Il 22 marzo 2003 l’artista relazionale Cesare Pietroiusti realizza nella Saletta di Arte Contemporanea a Castel San Pietro Terme, vicino Bologna, la performance dal titolo Pensiero Unico. L’artista chiuso nella stanza, con un grande orologio a parete alle spalle, canta a un microfono due canzoni fasciste Giovinezza e Vincere dalle 6 del pomeriggio fino a quando esaurisce la voce alle 23.45. La saletta affaccia sulla piazza del paese tramite una finestra con delle sbarre ed è perfettamente visibile e ascoltabile all’esterno. Le canzoni non vengono cantate per intero, ma a ciclo continuo vengono ripetute le due frasi “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza” e poi “vincere, vincere, e vinceremo in cielo, in terra e in mare. E’ la parola d’ordine, una suprema volontà.” Il tono della voce è assolutamente senza passione, nessun trasporto, nessuna retorica ma nemmeno ironia o disprezzo. Cesare è vestito in giacca e cravatta, in maniera molto formale e nella stanza a parte l’orologio e il microfono già menzionati non c’è altro. Un video documenta il tempo della performance. Dopo un primo momento di osservazione circospetta di alcuni cittadini che guardano perplessi da lontano, alcuni si fermano e gridano contro di lui. In un secondo momento arrivano dei ragazzi, giovani, uno si denuda per far vedere i suoi tatuaggi fascisti, altri portano delle sciarpe e le agitano come si fa allo stadio. Per un lungo tempo si attaccano alle sbarre e contano con Cesare le stesse parole della canzoni. Un tranquillo paese della provincia “rossa” italiana viene letteralmente “sconvolto” da un canto, da un ritornello ossessivo che proprio nella sua reiterazione che dovrebbe quasi togliergli valore, diviene una bandiera, un significato sotto cui manifestarsi. La ripetizione rende evidente qualcosa di rimosso, porta dei giovanissimi a identificarsi con qualcosa della quale non sanno quasi nulla e la loro partecipazione è un coro da stadio più che un vero grido politico. L’assoluta neutralità di Cesare in realtà rappresenta quella apparente “oggettività” con cui sono spesso raccontati i fatti storici in Italia legati al fascismo. Una neutralità che nell’ufficialità della storia serve ad assopire le possibili reazioni, e nel caso di Cesare lascia invece lo spazio alla reazione altrui, costruisce una sorta di zona grigia in cui identificarsi o protestare, in cui sentirsi ‘eredi’ o indignati, in cui ridisegnare un tempo e delle idee che spesso si conoscono più per traslato che non per vera esperienza diretta. Nella performance del 2003 la canzone funziona come un’immagine ripetuta come se non se ne conoscesse il significato, ma proprio la sua reiterazione da un lato svuota ciascuna parola del suo senso simbolico storico, ma dall’altra introduce quell’idea di ripetizione pedissequa tipica delle dittature. Non a caso vengono scelti i due ritornelli più conosciuti, ma anche due serie di parole che alludono ai temi forti del fascismo: l’ardore giovanile, il senso di conquista e di belligeranza, e il senso di superiorità  sull’altro, chiunque esso sia. La canzone ha senso solo perché funziona come un meccanismo relazionale che “costringe” chi passa a posizionarsi, a reagire. La sala lascia vedere la scena, Cesare è ben visibile, nulla viene nascosto, ma allo stesso tempo le sbarre e ancora di più la sua totale indifferenza, costruiscono una distanza, una freddezza che permette a chiunque di essere partecipe senza essere giudicato.
Vorrei in proposito citare un esempio recente molto significativo che mi sembra possa funzionare da paragone, in negativo, della performance di Pietroiusti. Bolzano è una città molto singolare che contiene due comunità, una tedesca e una italiana, più altre minoranze come quella Ladina, apparentemente conviventi i armonia in realtà con molti e costanti conflitti interni. La città ha una struttura in molta parte costruita in periodo fascista e mantiene molti edifici, monumenti e immagini pubbliche di grandi dimensioni legate al periodo. In particolare nel centro della città, a piazza Tribunale, spicca un edificio fascista con un enorme bassorilievo con Benito Mussolini a cavallo. La scultura è stata realizzata nel 1939 in pieno periodo fascista dallo scultore Hans Piffrader, ma per totale paradosso è stata poi posta sul palazzo solo nel 1956, molti anni dopo la caduta del regime fascista, al momento della decisione di finire l’edificio che era rimasto incompleto. Un comitato di cittadini più alcune istituzioni locali hanno quindi preso la decisione di intervenire sul bassorilievo decidendo a priori di non rimuoverlo. É stato indetto un concorso internazionale per un’opera contemporanea che potesse ‘modificare’ la scultura fascista. La definizione esatta dell’operazione parla di “depotenziamento” della scultura. La definizione dell’intervento richiesto fa parte di un forte dibattito locale sulla necessità di immaginare un processo di “depotenziamento” dell’eredità urbanistica, architettonica e artistica fascista a Bolzano. Il termine “depotenziamento” può essere fortemente ambiguo perché sottintende che le immagini di per sé sono portatrici di una forza evocatrice, di una potenza significativa che non è quella della memoria di un misfatto ma semmai di un momento di potere e appunto potenza. Non si immaginano quindi i luoghi e l’immagine relativa come un ‘potenziale’ luogo di memoria da rileggere e convertire, ma si immagina quello spazio come un potenziale attivatore di nostalgia che evidentemente cammina sotterraneamente nella cultura locale. Al concorso hanno partecipato oltre 500 progettisti ma dopo una lunga selezione che ne ha scelti 5, premiati ciascuno con un cospicuo premio in denaro, le istituzioni locali altoatesine (Provincia e Comune) in accordo con l’allora governo Berlusconi, hanno deciso di coprire il bassorilievo con un grande vetro smerigliato grigio. Un grande monumento della modernità che nascondendosi in realtà esalta la forza di quel l’immagine occultata e quindi ‘immaginabile’. Alla crudezza della sua retorica obsoleta e segnata dalla storia, si contrappone uno spazio che lascia spazio all’immaginazione, che vittimizza l’immagine come “inguardabile” e quindi degna di nota. Seguendo l’antica forma retorica romana della Damnatio Memoriae a Bolzano si copre ciò che non va più mostrato per ignominia, ma allo stesso tempo gli si attribuisce un ruolo di eccezionalità che resterà indelebile nel tempo. Nella storia di Venezia compare il nome del Doge Marin Falieri, l’unico ad aver tradito la Repubblica Veneta. Nel fregio che decora l’Aula del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia appaiono i ritratti di tutti i Dogi, ma al posto in cui dovrebbe essere quello di Marin Falieri è dipinto un drappo nero che sembra come appoggiato a coprire lo spazio dove sarebbe dovuto apparire il suo busto dipinto. Il Doge non è stato rimosso dal fregio ma il suo ritratto è stato coperto creando così un’eccezione, un intervallo, una differenza che ha fatto si che sia il solo doge di cui si parla in qualsiasi testo che commenti il fregio, qualsiasi guida turistica e qualsiasi saggio che parli di Damnatio Memoriae.
Il vetro che coprirà parzialmente l’immagine di Mussolini a Bolzano non farà altro che lasciare in una zona grigia quell’immagine, così come la ripetizione fatta di Cesare delle canzoni, così come il drappo del Doge, lasciando spazio per l’identificazione con qualcosa che non essendo più visibile è immaginabile e quindi viva. La neutralizzazione deve essere qui intesa nel senso letterale del termine, per cui rendere ‘neutro’ qualcosa non vuol dire renderlo inoffensivo, ma può significare l’amplificazione del suo potenziale immaginifico.
L’anno passato su un muro di Cesena, proprio di fronte alla scuola comunale e ad una chiesa un anonimo writer ha fatto uno stencil da muro in strada con l’effige di Mussolini. Nonostante l’immagine fosse ben visibile questa è stata lasciata lì sia dalle autorità che non si sono preoccupate di cancellarla, sia dagli stessi cittadini. L’artista Claudia Castellucci, della compagnia teatrale Societas Raffello Sanzio, durante il Festival Mantica, è intervenuta sullo stencil dipingendoci intorno una sorta di aura dorata, e ponendo intorno a questa sul muro altre immagini sacre, icone vere e proprie, più alcune frasi che alludevano all’indifferenza totale delle varie tipologie di passanti davanti al ritratto iniziale del dittatore. L’immagine che si era tentato di lasciare come in una sorta di limbo, abbandonata lì come fosse indifferente e silente, improvvisamente ha espresso tutto il suo potenziale eversivo e evocativo. La sua acutizzazione, la sua sacralizzazione, che in realtà era solo una messa a fuoco dell’esaltazione sommessa operata dalla sua non rimozione, dalla sua permanenza, ha provocato la reazione di istituzioni e cittadini che hanno provveduto a cancellare il tutto. Nel momento in cui l’immagine che apparentemente bisbiglia, ma che in realtà parla e grida persino, viene resa palese nella sua concretezza manifesta il suo vero carattere e diviene immagine dialettica, che discute con il suo contesto di nascita e con la sua ricollocazione nell’oggi. Ogni qualvolta qualcosa viene rimosso senza far esplodere il conflitto che nasconde, si elide qualsiasi possibilità che venga ridiscusso, che entri in un sano e forte confronto o scontro con la sua rilettura nell’attuale, che abbia la possibilità di entrare in una costellazione di significati che immediatamente non si rifanno più solo al passato ma si concretizzano nel presente.
La relazione che Cesare ha proposto ai cittadini di Castel San Pietro, così come quella proposta da Claudia Castellucci a Cesena, implicano quella variabile nella relazionalità che richiede delle reazioni, che non solleva significati e letture a priori ma che si sottopone alla variabile del vissuto, che si sottomette all’imprevedibile scambio che lascia all’altro non il ruolo di spettatore ma di attore. Riattivare la memoria non vuol dire far ricordare, ma vuol dire prendersi l’onere di costruire il ricordo simultaneamente a chi lo legge, in condivisione con chi lo rivive o lo vive, vuol dire accettare una corresponsabilità nel leggere nell’oggi ciò che non può che essere letto che con gli occhi dell’oggi. La monumentalizzazione del ricordo e la sua celebrazione marmorea esime dalla ridiscussione e dalla attualizzazione che sono i veri fattori di una relazione attiva e partecipata. Un’etica della negoziazione impone a chi lavora sulla memoria la responsabilità di ascoltare ancora più che di dire.

Pensiero Unico (2003)
Performance di Cesare Pietroiusti

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1 Macdonald, S. (2010), Difficult Heritage. Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, New York, p. 1.
2 Del Boca, A. (2005), Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza.