from roots to routes
Strade, sguardi, voci. Fondi fotografici inediti e memoria coloniale dall’archivio del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino
di Erika Grasso

Due bambine guardano in camera. Il loro sguardo è indecifrabile: stupore, timore, stanchezza? Difficile dirlo a più di un secolo e a più di ottomila chilometri di distanza dal momento e dal luogo dello scatto. Siamo, infatti, tra il 1913 e il 1923 nella regione compresa tra i fiumi Giuba e Uebi Scebeli: Somalia Italiana. Accovacciate ai bordi di quelle che paiono essere le rive di un fiume e sorprese nell’intimità del gesto quotidiano, alzano gli occhi. Da due angolazioni diverse, i loro sguardi convergono e sembrano rivolgersi all’osservatore (Fig. 1).

Fig. 1, F. Zanini, N° 28, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

L’immagine provoca spaesamento. Se in un primo istante è lo sguardo delle due figure ritratte a interrogare chi la osserva, poco a poco altri elementi catturano l’attenzione. Sulla parte inferiore della fotografia appare l’ombra di un uomo che, ritratto involontariamente, indossa un casco coloniale. Ma non solo, tra i chiaroscuri si scorge una sigla: “F.Z.28”. Le iniziali corrispondono all’autore degli scatti e, insieme all’ombra, risultano essere la chiave che rende possibile la lettura di un’immagine identica ad altre migliaia di fotografie scattate nel Corno d’Africa.

Strade
La sigla “F.Z.” visibile nell’immagine appena descritta permette di identificare in Zanini il cognome dell’autore dello scatto e inserire la fotografia in una serie più ampia, parte dei fondi fotografici dell’Archivio del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino (da qui in avanti MAET).
L’Archivio custodisce diversi fondi fotografici (fra i più studiati si ricordano il fondo Marro, il fondo Sesti e il fondo Bicknell, tutti costituiti da negativi su lastre di vetro con emulsioni al bromuro di argento) che documentano vie precise di testimonianza e interpretazione dell’alterità e che attendono di essere pienamente analizzati e valorizzati secondo nuovi paradigmi di comprensione dell’altro. Fra i materiali totalmente inediti ci sono i tre album che contengono 111 fotografie a stampa scattate tra il 1913 e il 1923 nell’allora Somalia Italiana: tra queste, la “F.Z. 28” risulta essere tra le più suggestive.
La raccolta costituisce un fondo distinto dagli altri di cui, per ora, si conosce poco e che pare essere entrato a far parte del patrimonio del MAET con un corpus di oggetti etnografici di varia provenienza grazie alla donazione “Gen. Carlo Vittorio Musso”. Inoltre, data l’omogeneità che le caratterizza, le fotografie possono essere considerate un documento unitario che testimonia un momento preciso dell’esperienza coloniale italiana nel Corno d’Africa; quello, cioè, del periodo di apparente stasi tra il colonialismo liberale e l’intensificarsi delle operazioni in terra di colonia atte a realizzare i progetti imperialisti del regime fascista. I due album più consistenti contengono 88 stampe contrassegnate dalla sigla F.Z. Le fotografie conservate nel terzo album sono, invece, 23 e sono corredate da didascalie. Il tempo sembra essere stato meno indulgente su quest’ultimo che è il meno corposo della collezione e che si differenzia dai primi due per il fatto di contenere stampe di misure e, molto probabilmente, di autori diversi. In alcuni casi sfocate e deteriorate, queste fotografie si caratterizzano per essere meno facilmente comprensibili e “leggibili” oggi.
In ogni caso, le didascalie a corredo permettono di connettere le immagini agli oggetti parte della donazione Musso e alla raccolta di stampe delle fotografie di F.Z. L’album si apre, infatti, con la dedica «Al gentile amico Tenente Vittorio Musso». Non si sa chi sia l’autore e il motivo per cui fece dono a Musso di quello che pare essere un ricordo di viaggio a tutti gli effetti. È certo, però, che condivise l’esperienza in Somalia con F.Z., ritratto in uno degli scatti presenti nell’album. A lato di una delle immagini, infatti, una didascalia recita: «Zanini non dà tregua ai soggetti interessanti» (Fig. 2). In camicia chiara e calzoni al ginocchio, Zanini è di spalle, chino sulla macchina fotografica nell’atto di ritrarre una giovane donna che regge un contenitore per il latte. Si riconoscono il “set fotografico”, lo stesso della fotografia F.Z. 24 (Fig. 3), e la donna che, con lo stesso contenitore e nella stessa posa, è ritratta nella fotografia F.Z.29 (Fig. 4).

Fig. 2, Anonimo, "Zanini non dà tregua ai soggetti interessanti", 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 3, F. Zanini, N° 24, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 4, F. Zanini, N° 29, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

Lo sguardo delle bambine e l’ombra del casco coloniale, fissati indelebilmente sulla carta fotografica da circa un secolo, interrogano l’osservatore. Allo stesso modo, la didascalia appena citata pone questioni di primaria importanza per la lettura e la comprensione di questi documenti di archivio. Il nome di Zanini mette inesorabilmente in relazione i tre album che si rivelano essere, quindi, parte di una collezione privata entrata a far parte del patrimonio culturale del MAET secondo strade ancora da chiarire. Ma non solo, rimangono sconosciute, infatti, anche le vie che hanno condotto prima Zanini in Somalia e, poi, i suoi scatti a Torino. Inoltre, il riferimento ai «soggetti interessanti» e i soggetti stessi delle 111 immagini rendono il fondo coerente con la storia del collezionismo e delle raccolte etnografiche della prima metà del XX secolo. Allo stesso tempo, fanno emergere la necessità di interrogarsi su ragioni e modalità con cui Zanini e i “suoi” soggetti si siano incrociati per proseguire insieme, seppur virtualmente, verso la collezione privata Musso e, poi, nell’archivio del MAET.
Se, come suggerito da James Clifford, il museo può e dovrebbe essere una «contact-zone» (Clifford, 1996) in cui avviare un dialogo e ristabilire reciprocità tra soggettività diverse e in prima istanza tra l’istituzione e le culture che in essa vengono rappresentate, l’archivio del MAET e suoi fondi fotografici sembrano offrire una prima e importante occasione di analisi e decostruzione del significato che le immagini e la cultura materiale hanno assunto nella definizione dell’alterità in passato, ma non solo.
Seguire le tracce e ripercorre le strade che hanno condotto gli scatti di Zanini dalla Somalia a Torino significa riconoscere le nuance di significato che documenti di questo tipo hanno assunto nel tempo, in una sorta di percorso a tappe che solo apparentemente termina nei faldoni di un archivio che recentemente sono stati “ri-aperti”. Le strade percorse, infatti, si incrociano nel patrimonio museale rendendo visibile non solo la possibile «contact-zone», ma anche le asimmetrie su cui essa si fonderebbe (Boast, 2011). Riconosciuta l’una e le altre, sembra auspicabile provare a ipotizzare nuovi percorsi che permettano all’istituzione museale di comprendere meglio se stessa e, poi, di aprirsi alle soggettività di cui si è fatta portavoce per lungo tempo. Il MAET si sta muovendo in questa direzione, come già sperimentato per la mostra “Gelede. Le nostra madri Yoruba” curata da Cecilia Pennacini e dalla sottoscritta e allestita a ottobre 2018 presso il Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino. Le fotografie e gli oggetti risalenti al periodo coloniale richiedono un’attenzione particolare in questo senso.
I tre album in esame presentano caratteristiche tipiche delle raccolte di fotografie storiche relative all’Africa e, in particolare, del corpus fotografico che riguarda l’esperienza coloniale italiana. Parte di collezioni pubbliche e private, spesso inaccessibile o poco considerato, questa sorta di archivio diffuso di immagini (e di immaginari) è costituito da documenti sparsi che hanno contribuito in modo essenziale alla definizione sia dell’alterità sia della comunità nazionale (Triulzi, 1995: 146).
In assenza di informazioni rispetto ai soggetti, ai luoghi e alla datazione degli scatti, emerge la natura apparentemente muta delle immagini degli album Musso. Come per molti altri fondi fotografici di questo tipo, si tratta di paesaggi lontani e difficilmente riconoscibili, abitati da uomini, donne e bambini che, spesso, guardano in camera, ma di cui poco si conosce e delle cui storie poco è immaginabile. Benché le didascalie corrano in aiuto nell’identificare alcuni dei luoghi e dei soggetti ritratti, esse non dicono abbastanza. I corpi ritratti, gli sguardi, le vie affollate e le città sono parte di un archivio di memorie che ha percorso strade caratterizzate spesso dal silenzio e dall’oblio, che hanno visto il coinvolgimento e l’avvicendarsi di esperienze e soggettività diverse e che necessitano di essere opportunamente indagate. Carenti dei dati identificativi essenziali, le immagini richiedono che sia ricostruito il contesto e il discorso culturale attraverso cui sono state prodotte.
In questo senso, il rapporto “emotivo” e “soggettivo” di coloro che hanno scattato le foto, ma anche di chi le ha ordinate e conservate negli anni, con i luoghi e le persone ritratte, va messo in dialogo con il contesto politico e scientifico all’interno del quale gli scatti sono stati prodotti. Come indicato da Alessandro Triulzi, la ricostruzione del contesto e dei dati identificativi permetterebbe di restituire a ogni immagine il proprio valore documentario (Triulzi, 1995: 147). Per quanto riguarda i fondi fotografici del MAET, l’esigenza di inquadrare a livello storico e tematico le immagini che essi conservano è dettata in primo luogo dalla mancanza di informazioni certe riguardo la storia di molte delle collezioni del museo e, in secondo luogo, dalla storia e dalla natura di un’istituzione la cui fondazione risale all’epoca fascista e il cui passato è contraddistinto da snodi ambigui e molti silenzi. In questo senso, l’analisi dei fondi fotografici inediti e delle collezioni etnografiche del MAET iniziata dal 2017 si inserisce in una più ampia azione di studio, aumento dell’accessibilità da parte del pubblico e valorizzazione del patrimonio che si propone di indagare sia i contesti di produzione e di raccolta sia le storie di soggetti rappresentati nelle sue collezioni e per lungo tempo ignorati e, allo stesso tempo, di interrogare diversi tipi di documenti partendo proprio dalla storia dell’archivio e delle collezioni e dalle modalità attraverso cui sono stati costituiti e mantenuti nel tempo, attraverso un’analisi e una ricostruzione critica, «along the archival grain», come proposto da Ann Laura Stoler per gli archivi coloniali (Stoler, 2009).

Sguardi
In particolare, il fondo Musso necessita un’analisi che restituisca il suo valore documentario e che permetta il riconoscimento del ruolo attuale delle immagini. Benché la ricerca a riguardo stia muovendo i primi passi, è possibile, a poche settimane dalla “riscoperta” del fondo, tracciare le strade che, incrociandosi, sovrapponendosi e, a volte, allontanandosi, permetteranno di giungere a una più profonda comprensione degli album e, soprattutto, del contesto in cui sono stati prodotti e conservati.
Non si hanno molti dati riguardo al tratto di strada che unisce i luoghi e i momenti dello scatto delle immagini all’oggi. La ricerca ha richiesto, e richiede ancora, uno movimento a ritroso nel tempo che, molto lentamente, permette di rintracciare tutti segni lasciati sul cammino da parte degli album e dei soggetti che vi appaiono. Per ora, le didascalie presenti su uno dei due album hanno permesso di identificare alcuni dei luoghi (Mogadiscio, Afgoi, Baidoa e Lugh) e di identificare il momento in cui, ragionevolmente, sono stati effettuati gli scatti. Tra i nomi citati dalle didascalie, uno in particolare ha permesso di muovere i primi passi verso una datazione verosimile. Si tratta di Ugo Ferrandi (Fig. 5), esploratore novarese presente in Somalia già alla fine del XIX secolo e fautore con Vittorio Bottego delle esplorazioni delle valli dei fiumi Uebi Scebeli e Giuba.

Fig. 5, Anonimo, "Ugo Ferrandi – Cap. Bianchi – Com. Bertazzi (Afgoi)", 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 6, Anonimo, "S. E. il Governatore ed Ufficiali del Presidio", 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

La presenza di Ferrandi, rientrato definitivamente in Italia nel 1923, permette di dire con relativa sicurezza che gli scatti sono da ricondurre a un periodo precedente all’insediamento di Cesare Maria De Vecchi a governatore della Somalia Italiana e, per tanto, di considerarle come documento del periodo di cerniera e passaggio tra il colonialismo liberale e l’impresa imperiale fascista, ma non solo. Ferrandi, infatti, operò in Somalia partecipando a quelle esplorazioni che permisero una conoscenza del territorio e che, spesso, si trasformavano, se non in spedizioni militari, in ricognizioni che anticipavano ed erano funzionali all’occupazione vera e propria. Non è un caso che Ferrandi appaia in un album in cui, tra gli altri luoghi citati, figura Lugh, villaggio la cui presa motivò la spedizione con Bottego del 1895. L’obiettivo era quello di trovare accessi praticabili alla vicina Etiopia, e nel piccolo centro non lontano dal confine Ferrandi ebbe il compito di aprire una stazione italiana di cui rimase al comando fino al 1897 (Ferrandi, 1903). Rimasto in Somalia, tornò a Lugh nel 1910 e nel 1913 venne nominato Commissario dell’Alto Giuba e, successivamente, della Somalia Settentrionale.
La presenza di «S. E. il Governatore» su due delle fotografie corredate da didascalia fornisce un ulteriore limite temporale (Fig. 6). Se gli italiani furono presenti in Somalia sin dal 1889, bisognerà attendere il 1908 perché il Parlamento italiano promulghi una legge che prevedeva che tutti i territori tra Bender Cassim e Kisimajo fossero riuniti sotto l’amministrazione della Somalia Italiana e che considerava l’occupazione dell’interno della nascente colonia come elemento essenziale alla sua sicurezza e al suo sviluppo. Da questo momento, la Somalia italiana ha un governatore (nei primi due anni si alterneranno ben sette nomi a capo dell’amministrazione coloniale) e vede intensificarsi le operazioni di occupazione che giungeranno fino al confine etiope. L’occupazione del Basso Uebi Scebeli impegnò l’amministrazione fino al 1908, quando venne istituito un presidio ad Afgoi, località in cui è ritratto Ferrandi. Baidoa, altro luogo citato nell’album, verrà occupata “solo” il 25 giugno del 1913. Le immagini che immortalano i funzionari coloniali al presidio di Baidoa sono da far risalire, quindi, agli anni successivi.
Per ora, i dati riguardo ai soggetti (italiani) ritratti negli scatti conservati nel fondo Musso non sono ancora esaustivi e sufficienti per ripercorrere la strada che da Mogadiscio li condusse a Afgoi, Baidoa e Lugh in quella che sembra essere una visita alle terre occupate tra il 1908 e il 1913 nella regione tra i fiumi Uebi Scebeli e Giuba. Ancora non è stato possibile trovare notizie di Zanini (autore degli scatti degli altri due album) e nemmeno dei funzionari coloniali ritratti e citati. Anche il volto del governatore attende di avere un nome certo. Se il contesto specifico di produzione delle immagini è quindi ancora nebuloso, quello storico permette di riconoscere gli elementi che rendono le fotografie in esame appartenenti alla produzione fotografica prodotta durante viaggi ed esplorazioni nel Corno d’Africa tra il XIX secolo e l’inizio del XX, che si differenzia dalla fotografia propagandistica di epoca imperiale.
I tre album presentano soggetti diffusi nelle immagini risalenti al primo colonialismo, frutto di un clima politico e culturale in cui proliferavano miti colonialisti e razziali che trovarono poi piena espressione nell’impresa imperiale e nella propaganda fascista (Labanca 1988). Risalenti al periodo di passaggio tra un momento e l’altro dell’esperienza coloniale italiana nel Corno d’Africa, i tre album Musso non presentano gli elementi tipici dell’iconografia e della fotografia di propaganda fascista pur risalendo a un momento peculiare della storia della Somalia Italia, quello cioè in cui dalle azioni di presa di controllo della costa e di alcune aree dell’interno si passò a una programmatica costituzione di uno stato coloniale vero e proprio. Piuttosto sembrano racchiudere in sé «tutto l’universo iconografico coloniale degli italiani» (Labanca, 1988: 43). Scattate poco prima dell’arrivo del quadrumviro Carlo Maria De Vecchi, le foto serbano tra le ombre del bianco e nero la memoria di una visita ufficiale che ha i toni del viaggio di piacere, in cui appaiono profili di antiche moschee (come quella di Ali Giama di Mogadiscio – Fig. 7), le carovane nomadi di cammelli, le anse del fiume. Ma anche donne in posa o colte di sorpresa, bambine e pastori che guardano direttamente in camera con sguardi spesso indecifrabili che tradiscono diffidenza e stupore allo stesso tempo. Il contatto con l’altro avviene attraverso l’obiettivo, vero medium che connette due mondi i quali, negli scatti, entrano in contatto solo in un paio di casi. Gli ufficiali europei, infatti, non sono mai ritratti con i “soggetti interessanti” che Zanini, invece, faceva mettere in posa.

Fig. 7, F .Zanini, N° 2, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 8, Anonimo, "Uddùr. Tenete Orlandi e Cocò", 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

Una fotografia immortala il tenente Orlandi intento a giocare con un babbuino: «Cocò» (Fig. 8). Quello che emerge dagli album Musso è soprattutto un intrecciarsi di sguardi che si completano alternando immagini che mostrano la «terra di benedizione» (Del Boca, 1976: 432) su cui si aveva finalmente preso il controllo attraverso una rappresentazione altamente estetizzante e esotizzante ma anche, paradossalmente, sguardi che tradiscono confidenza e abitudine. Squarci di una quotidianità, reale o presunta, che la scelta delle immagini e il loro susseguirsi nelle pagine degli album concorrono a costruire. Questo è vero soprattutto per l’album corredato di didascalie, sicuramente privato e inteso come dono a un amico. Le pagine di cartoncino curato, le cornici fornite alle immagini in fase di sviluppo, le didascalie scritte in bella grafia, tradiscono l’intenzione di donare il ricordo di un’esperienza intesa come piacevole, esotica e indimenticabile. Esperienza, tra le altre cose, condivisa. Le informazioni fornite sono scarse, i luoghi appena accennati, i protagonisti a malapena citati. Il destinatario non necessitava, evidentemente, di tracce per ricostruire la strada che da Mogadiscio lo ha portato a Lugh. In effetti, il ricordo è affidato ai ritratti di donne somale. In particolare a Betulla, protagonista di tre scatti sfocati: prima «seria!» e, nell’ultimo, «ridente!» (Fig. 9). Come inframezzo un primo piano della ragazza che posa con altre donne alle sue spalle (Fig. 10). Lo sguardo è sicuro, il pugno sinistro è appoggiato su un fianco, mentre la mano destra è chiusa e appoggiata sul ventre. Con i capelli coperti da un foulard fantasia, Betulla ci guarda da quello che sembra essere l’altro capo del lungo cammino che la ha condotta dal Corno d’Africa a Torino. Ci guarda e sembra chiederci che cosa faremo, oggi, dei suoi ritratti. Su quale strada li indirizzeremo.

Fig. 9, Anonimo, "Betulla seria", 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 10, Anonimo,”Donne Rahan-wên a Baidòa (Betulla e C.ne)", 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

I due album “firmati” F.Z. sono frutto di una composizione voluta e pensata al pari del primo, ma che presenta caratteristiche differenti e che apparentemente non ha destinatari. Le immagini presentano i topoi classici di questo genere di fotografia. I paesaggi, le mandrie di dromedari ripresi in cammino e durante l’abbeverata, la popolazione locale ritratta davanti alle abitazioni tradizionali o radunata al mercato contribuiscono a costruire l’immagine di un “altro mondo” che ricorda quello descritto sui romanzi di avventura e sui resoconti degli esploratori. Un’Africa misteriosa e non ancora civilizzata in cui trovare animali esotici e paesaggi incontaminati e di cui avere prova attraverso immagini in cui spesso questi elementi sono messi sullo stesso piano degli uomini e delle donne che la abitano. Prova di questa sorta di “selvatichezza” dell’Africa e degli africani sono anche le foto che immortalano le «fantasie» indigene: uomini che danzano in gruppo con i bastoni alzati di cui risaltano i corpi in movimento, le braccia alzate e il senso di disordine e spaesamento che le danze dedicate e in onore ai funzionari “bianchi” dovevano creare a chi vi assisteva (Fig.11 e 12). In ultimo, non sfugge una certa volontà di “documentare” l’altro.

Fig. 11, F. Zanini, N° 55, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 12, F. Zanini, N° nn, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

I primi piani di profilo e tre quarti che occupano buona parte degli album di Zanini ricordano in modo inequivocabile le fotografie antropometriche utilizzate dagli antropologi e scienziati sociali dell’epoca che classificavano l’umanità in “tipi” dai caratteri somatici riconoscibili. In questi casi i soggetti di Zanini guardano fissi l’obiettivo e, oggi, rendono evidente le asimmetrie e i paradossi custoditi in archivio (Fig. 13, 14 e 15). Gli sguardi tradiscono intimità e vicinanza tra soggetto e fotografo. Realtà “altra” e, allo stesso tempo, conoscibile e visibile, i «soggetti interessanti» ritratti da Zanini sono il frutto di un potere produttivo e parte del discorso coloniale così come descritto da Homi K. Bhabha (1994). Gli uomini e le donne “in posa” sembrano acconsentire e aver avuto voce nella composizione dello scatto e, allo stesso tempo, paiono figure immaginarie di cui possiamo presumere tutto e sapere nulla. Se non vi è memoria dell’interazione tra Zanini e questi uomini e queste donne, non resta che chiederci, oggi, in che modi dare loro voce.

Voci
Il MAET non nasce come un museo coloniale, ma è stato pensato e creato in un periodo storico in cui l’istituzione museale e, in particolare, le collezioni di oggetti “altri” erano luogo e pretesto per la definizione del “noi” e del “loro”. In questo senso, i musei diventano luoghi in cui, non solo vengono testate le teorie razziste, ma in cui l’ideologia “colonialista” e “nazionalista” ha un ruolo preciso nel modo in cui gli oggetti sono compresi ed esposti al pubblico. Lo stesso può essere detto per i fondi fotografici raccolti e conservati negli archivi che, come nel caso del MAET, se non esposti al pubblico, erano spesso utilizzati come materiale didattico e di supporto alla ricerca. In questo senso, il fondo Musso non fa eccezione e se il contesto in cui è stato prodotto e quello in cui è stato “usato” e conservato sono da considerarsi un tratto di strada problematico e legato a relazioni di potere precise e paradigmi scientifici non più accettabili, il presente pone interrogativi che non possono essere disattesi. Sono i soggetti ritratti, le storie e le intenzioni che hanno concorso alla produzione del fondo che vanno indagati così da giungere alla percezione di quanto essi trovino eco nelle soggettività, nelle storie e nelle intenzioni del presente, dentro e fuori le stanze museali. In particolare, i fondi fotografici custoditi nell’archivio del MAET, in particolare i fondi Musso e Sesti, rimandano sia a una relazione con l’alterità che è cosa tutt’altro che recente (Pennacini 1999) e che con l’esperienza coloniale contribuisce in modo essenziale alla definizione della comunità nazionale e dell’italianità (Sorgoni 2009; Proglio 2016).
Interpretazione del mondo e dell’altro (Sontag, 1978: 6), gli album Musso fanno emergere chiaramente la compresenza di soggettività molteplici che concorrono alla costruzione di un discorso fondato sugli immaginari tipici dell’Orientalismo (Said, 1978) e dell’Africanismo (Mudimbe, 1988), vero e proprio specchio in cui l’Occidente ha proiettato desideri e fantasie e in cui ha relegato immagini fisse e mute dei “nativi”. Se finora la strada percorsa dagli album ha visto i «soggetti interessanti» privi di voce, lo studio dei fondi è finalizzato non solo a restituire il valore documentario alle immagini, ma anche a dare voce alle soggettività che finora non hanno preso parola attraverso una comprensione partecipata e aperta del patrimonio culturale.

Fig. 13, F. Zanini, N° 92, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 14, F. Zanini, N° nn, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.
Fig. 15, F. Zanini, N° 76, 1913-1923. Courtesy of Museo di Antropologia ed Etnografia del Sistema Museale di Ateneo dell'Università degli Studi di Torino.

Note
[1]
Il fondo fotografico Marro è stato donato al MAET dallo stesso fondatore del museo Giovanni Marro ed è costituito da circa 2000 negativi su lastre di vetro con emulsione al bromuro di argento, che documentano le attività di ricerca del fondatore del museo. Di particolare valore sono le 228 lastre della collezione fotografica egiziana risalenti a un periodo compreso tra il 1911 e il 1923 che documentano le campagne di scavo in Egitto della Missione Archeologica Italiana (cfr. Rabino Massa, Boano, 2003; Boano, Campanella, Mangiapane, Rabino Massa 2016).
[2] Il fondo fotografico Sesti è composto da 343 negativi su lastre di vetro con emulsione al bromuro di argento. La collezione fotografica è giunta a far parte del patrimonio del museo con una cospicua collezione di oggetti provenienti dal bacino del Congo che costituisco il nucleo più nutrito del corpus africano delle collezioni etnografiche raccolte da Giovanni Marro. La collezione etnografica congolese si deve agli ingegneri Pietro Gariazzo e Carlo Sesti, autore degli scatti che compongono il fondo fotografico omonimo, impegnati nella costruzione della linea ferroviaria tra le città di Matadi e Leopoldville (oggi Kinshasa) per conto di Leopoldo II nei primi anni del XX secolo (cfr. Gualino, 1944; Pennacini, 2000).
[3] Il fondo fotografico Bicknell è composto da circa 140 lastre in vetro con emulsione al bromuro di argento che riproducono incisioni rupestri di epoca pre e proto-storica eseguite da Clarence Bicknell e Luigi Pollini nella regione del Monte Bego tra il 1905 e il 1913.
[4] Album di cartoncino rilegati con cordoncino verde, di cui due (24 pagine, 19 cm x 13 cm) contenenti 88 fotografie a stampa siglate FZ (14 cm x 9 cm). Il terzo album (12 pagine, 19 cm x 14), sempre in cartoncino con rilegatura in cordoncino, contiene 23 fotografie a stampa di diverse dimensioni e, a differenza di quelle appartenenti ai primi due, corredate da didascalie.
[5] Le informazioni riportate nelle schede di catalogo compilate nel 2004 attraverso il sistema “Guarini Beni Culturali” della Regione Piemonte indicano che 9 oggetti della collezione etnografica africana (provenienti da Somalia, Algeria, Sud Africa, Mauritania) risalgono alla donazione “Gen. Carlo Vittorio Musso”. Gli oggetti provenienti dal Corno d’Africa e appartenenti a questo gruppo sono da considerare come integrazione a quelle che Emma Rabino Massa ha identificato come «Collezione Etiopica» e «Collezione dell’Africa Equatoriale (Turkana)» (Rabino Massa, Boano 2003) che si distinguono come un corpus distinto all’interno della collezione africana del MAET presentando una discreta testimonianza della cultura materiale delle popolazioni pastorali dell’Africa orientale.
[6] http://museoantropologia.unito.it/index.php/it/le-attivita/eventi/166-gelede-le-nostre-madri-yoruba-nigeria-benin (consultato il 11.03.2019)
[7] A riguardo si rimanda, tra gli altri, a Goglia 1989; Triulzi 1995, Palma 2005, 2013; Bertella, Farnetti, Mignemi, Triulzi 2013, Proglio 2013.
[8] Per la ricostruzione delle vicende che interessarono il Corno d’Africa durante le campagne coloniali italiane si veda Del Boca, 1976; 1979 e Labanca, 2002.

Riferimenti Bibliografici
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Erika Grasso: PhD in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Torino (2017). Dal gennaio 2018 è borsista di ricerca presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino. Ha condotto ricerche nelle regioni settentrionali del Kenya dove ha indagato i processi di evangelizzazione della popolazione gabra e la costruzione dello spazio urbano della città di Marsabit. A Marsabit ha curato la creazione dell’archivio della missione cattolica e studiato i documenti dell’attività dei missionari italiani nella regione. Da anni lavora come curatrice delle collezioni e come guida nel Museo Civico Antonio Adriano di Magliano Alfieri (CN) e ha collaborato alla campagna di catalogazione delle collezioni africane del Museo dei Missionari della Consolata di Torino. Dal 2018 lavora sulle collezioni etnografiche del Museo di Antropologia ed Etnografia (MAET) del Sistema Museale di Ateneo di Torino curandone la conservazione e la catalogazione.