BURNING ARCHIVES
La memoria del corpo tra archivi etnografici, colonialismo e arte contemporanea
di Giulia Grechi

“The shadow archive”: il corpo razzializzato e la traccia fotografica

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“Il vero metodo per renderci presenti le cose
è di rappresentarcele nel nostro spazio
(e non di rappresentare noi nel loro).
(Così fa il collezionista e così anche l’aneddoto)”

(Walter Benjamin, I «Passages» di Parigi).

“In Occidente il collezionismo è stato a lungo una strategia
del dispiegamento possessivo dell’io, della cultura, dell’autenticità”

(James Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 252)

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Interrogandosi sull’attitudine a raccogliere, classificare e categorizzare che ha prodotto l’incredibile proliferazione di dispositivi archiviali tra XIX e XX secolo, James Clifford sottolinea come queste attività non siano certo una prerogativa Occidentale, ma lo diventano nella misura in cui sono associate ai concetti di accumulazione e preservazione (piuttosto che a quelli di redistribuzione o dissolvimento), a nozioni di temporalità e di ordine che hanno le loro radici nella cultura occidentale1. In questo senso i processi dell’archiviare e del collezionare, quel complesso insieme di pratiche che comprende l’accumulare, il classificare, il conservare e l’esporre, sono identificabili sia come specifiche forme legate alla soggettività occidentale, sia come una serie di potenti pratiche istituzionali tese all’appropriazione di oggetti, immagini, significati altri. Ed è proprio nel dispiegarsi di questa doppiezza che si annida la fondamentale ambiguità che sottende l’operazione archiviale, continuamente sospesa tra memoria e desiderio.
Ogni dispositivo archiviale implica un complesso generale di regole tassonomiche, classificatorie ed estetiche, ma anche un caotico e smodato desiderio di possedere, che attraverso l’elaborazione dell’archivio o della collezione viene tradotto in significazione, governato e codificato in un rituale di “incanalamento delle ossessioni, un esercizio su come appropriarsi del mondo2”. Un rituale fondamentale per l’Europa coloniale del XIX e del XX secolo, che ha a che fare col modo in cui scegliere, classificare e organizzare per generi e gerarchie ciò che “vale la pena” documentare, fermare in un presente pietrificante (un presente etnografico), ricordare o meglio far ricordare, interpretando quella peculiare forma di memoria che forse ha più a che fare con il futuro – con l’aspirazione ad anticipare ciò che dovrà essere ricordato –  che con il passato.
Tra XIX e XX secolo la rappresentazione istituzionale dell’alterità – in un museo, in un archivio, in una Esposizione Universale – agisce in maniera strategica, attraverso la logica dell’archivio, isolando l’oggetto (o il soggetto), separandolo dal suo contesto specifico e inserendolo in un diverso “ordine”, all’interno del quale esso starà a significare una totalità astratta, e sarà così “salvato”. Questo processo è funzionale a costruire, per sineddoche, l’illusione di una rappresentazione “adeguata” di quella totalità, a partire dall’inserimento di una sua parte (l’oggetto o il soggetto collezionato/rappresentato) in una narrazione schematica e coerente, che si sovrappone alla storia e al contesto specifico di provenienza di quell’oggetto o di quel soggetto. La conseguenza di questo processo è quella di oscurare le circostanze specifiche di produzione e appropriazione dell’oggetto, o le relazioni di potere fra il soggetto rappresentato e colui che lo rappresenta – l’antropologo, l’impresario di un Ethnic Show, i funzionari coloniali che redigevano i loro rapporti, i rappresentanti di uno Stato coloniale che allestivano all’interno di una Esposizione Universale i “villaggi indigeni”, la Via del Cairo o la ricostruzione di una Moschea, con figuranti provenienti da un paese colonizzato ed esposti per garantire l’autenticità della ricostruzione3.

In questo senso non solo i musei, ma tutti quei dispositivi attraverso i quali, tra XIX e XX secolo, oggetti e corpi altri venivano tradotti, definiti, classificati, mostrati e posseduti (fatti propri) dall’Europa coloniale, funzionavano costruendo

“l’illusione della rappresentazione adeguata di un mondo, dapprima separando gli oggetti dai loro contesti specifici e facendoli stare «in luogo di» totalità astratte (…). Successivamente si elabora uno schema di classificazione per immagazzinare o esporre l’oggetto, in maniera tale che la realtà della collezione stessa, la coerenza del suo ordine, si sovrappongano alle storie specifiche di produzione e di appropriazione dell’oggetto. (…) Il mondo oggettivo è dato, non prodotto, e così i rapporti storici di potere insiti nel processo di acquisizione risultano occultati. La costruzione del significato nelle classificazioni e nelle esposizioni viene mistificata come rappresentazione adeguata. Il tempo e l’ordine della collezione cancellano il concreto lavoro sociale del suo farsi”4.

Questa modalità di organizzazione e appropriazione del reale supportò, tra XIX e XX secolo, un movimento generale verso la costruzione di archivi, in particolar modo di archivi visuali, nei quali le attività del classificare, dell’ordinare, del mostrare – dunque del possedere – oggetti e corpi altri si connettono ad un contesto più generale, che riguarda contemporaneamente tre processi fortemente intrecciati fra loro, e tutti legati alla messa a punto del dispositivo fotografico su scala industriale intorno alla metà del XIX secolo: il particolare statuto indiziario della fotografia, la relazione di quest’ultima con la rappresentazione antropologica e coloniale, e infine il suo legame con la borghesia industriale metropolitana.
Il primo processo riguarda l’indessicalità del mezzo fotografico, che gli ha consentito di essere utilizzato fin dall’inizio come mezzo di identificazione e catalogazione delle identità, inaugurando una inedita modalità di costruzione del sapere scientifico sulla differenza corporea. Le caratteristiche fisico/chimiche del dispositivo fotografico, che permettono di conservare la traccia fisica dell’oggetto fotografato, hanno fatto sì che esso fosse interpretato da subito come un prezioso meccanismo di registrazione del reale, e hanno fornito in qualche modo una garanzia di veridicità e scientificità nella riproduzione della realtà, facilitando l’individuazione, la schedatura e la rappresentazione della devianza, soprattutto in ambito medico e criminale. Proprio per le sue proprietà indessicali, dunque, il mezzo fotografico ricevette fin da subito il battesimo della scienza, senza tuttavia poter occultare la fondamentale ambiguità di questa relazione: l’alleanza tra fotografia, fisiognomica, rappresentazioni manicomiali e identificazioni criminali nella catalogazione dei tratti fisici dell’individuo considerato deviante, nasconde un desiderio di possesso e di controllo dell’Altro attraverso la produzione stessa della differenza (più che la sua ri-produzione), marchiata sul corpo e identificata dalla fotografia allo scopo di renderla auto-evidente, controllabile, e quindi inoffensiva5.
Il secondo processo interessa il forte legame tra lo sviluppo degli studi antropologici, l’esperienza coloniale e l’uso della fotografia per la costruzione di archivi etnografici. L’utilizzo dello strumento fotografico a scopo identificativo e catalogativo su soggetti considerati devianti passò presto dall’ambito medico e criminale a quello degli studi antropologici, nei quali le metodologie di rilevamento fotografico della differenza vennero applicate per la rilevazione di tratti razziali e spesso affiancate da misurazioni antropometriche, evidenziando la stretta e ambigua relazione tra il dispositivo fotografico, lo sviluppo degli studi antropologici e l’esperienza coloniale.  Per gran parte del XIX secolo la fotografia antropologica si concentrò principalmente sulla corporeità dei soggetti, allo scopo di fornire credibilità scientifica alla nozione biologica della razza e di dimostrare, di provare attraverso l’evidenza dell’immagine fotografica, una tesi precostituita: l’irriducibile diversità fra le “razze”6. Obiettivo facilmente raggiungibile grazie al dispositivo fotografico, attraverso la costruzione di astrazioni, di “tipi razziali”, che permettessero di spiegare le differenze come deviazioni da determinate norme. A livello formale questo tipo di fotografie erano considerate auto-evidenti e allo stesso tempo generiche, e sembravano non avere autore: se l’obiettivo era l’assoluta “oggettività” della rappresentazione, qualsiasi segno di autorialità doveva essere nascosto o dissimulato o invisibilizzato nella ricostruzione di uno scenario “autentico”, e allo stesso tempo il soggetto rappresentato doveva subire un processo di negazione e di oggettificazione7. I soggetti rappresentati venivano identificati nelle didascalie solo con il loro paese di provenienza o con generiche etichette che avevano lo scopo di occultare la loro soggettività e allo stesso tempo di renderli, per sineddoche, segni di un’intera popolazione8.

La terza dinamica ha a che fare con la relazione fra il mezzo fotografico e la borghesia industriale, che lo userà anche come strumento per la sperimentazione e la rappresentazione della propria identità. Il dispositivo fotografico consentì alla borghesia europea di rivolgere un nuovo sguardo verso se stessa, di sperimentare la propria identità e di appropriarsi del mondo attraverso le immagini fotografiche e il potere di rappresentare. Grazie alla semplificazione tecnologica e economica introdotta dalla carte de visite di Disdéri, e alla conseguente massificazione nell’uso del dispositivo fotografico, le fotografie diventarono collezionabili, uscirono dalla cornice e penetrarono lo spazio domestico del salotto borghese, dove iniziarono ad essere ordinate e conservate all’interno di album e di collezioni private, approfondendo così l’uso “affettivo” delle immagini fotografate inaugurato con i dagherrotipi. Inoltre, con lo svilupparsi massivo della ritrattistica in studio, la fotografia si configurò come un potente laboratorio di sperimentazione e moltiplicazione identitaria per una borghesia sempre più padrona di sé e del mondo, come racconta con acuta ironia Walter Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia (1966):

“Era l’epoca in cui gli album fotografici cominciavano a riempirsi. Si trovavano particolarmente nei punti più squallidi delle abitazioni, sulle consolle e sui tavolini dei salotti: rilegature di cuoio con orrendi ornamenti in metallo, i fogli con un bordo d’oro largo un dito, su cui si esibivano personaggi buffamente drappeggiati o inguainati – lo zio Giuseppe e la zia Peppa, la Giuseppina quand’era piccola, il papà quando faceva il primo semestre universitario – e finalmente, a compir l’opera, noi in carne ed ossa: travestiti da tirolesi, intenti a vociare jodel, ad agitare il cappello verso ghiacciai dipinti, oppure vestiti alla marinara”9.

Il ritratto fotografico costruisce un campo di forze il quale genera a sua volta nel soggetto che si fa fotografare un atteggiamento di “posa”, di “autentica-inautenticità”, una disposizione a fabbricarsi un altro corpo, a trasformarsi anticipatamente in immagine. In questo senso il soggetto che si autorappresenta davanti all’obbiettivo fotografico non è “né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto”10. Non a caso Barthes, per indicare l’oggetto o il soggetto fotografato, usa il termine spectrum, intendendo sottolineare il forte legame della fotografia con una sorta di microesperienza della morte. Il termine spectrum condivide la sua radice latina con il termine speculum, che rimanda all’ambiguo statuto della fotografia come specchio della realtà ma anche come esperienza straniante del vedersi e del riconoscersi come altro da sé, come doppio11, ma ha anche la stessa radice di spectaculum, ed è proprio in questa condizione riflessiva e attiva di messa in mostra di sé, di alterazione di sé (cioè di scoperta e di sperimentazione di sé come alterità) che sta il senso del ritratto fotografico per il borghese del XIX secolo:

“la fotografia è l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza d’identità”12

La borghesia iniziò a rappresentarsi e, nella riflessività di questo atto, ad alterarsi, a sperimentare e interpretare la propria identità e il proprio corpo, a produrre una cosciente alter-azione del proprio sé incorporato (“noi in carne ed ossa”). L’impersonamento di molteplici identità diventò una modalità estremamente diffusa di costruzione della propria rappresentazione per la borghesia tra XIX e XX secolo, e non è un caso se, tra le performance messe in scena negli studi fotografici, una delle più diffuse era il travestitismo razziale, attraverso il quale la borghesia imperialista poteva esprimere i propri repressi “primitivi interiori”. Come non è un caso se negli stessi salotti, accanto alle raccolte di ritratti fotografici intimi e affettivi, iniziano a trovare posto collezioni di postcards e di cabinet cards che riproducevano per il pubblico di massa immagini souvenir dei figuranti nelle Esposizioni Universali o ritratti dei colonizzati realizzati nei territori di recente acquisizione. La produzione di massa di immagini di tipi etnografici attraverso questi più agili formati iniziò a circolare molto oltre l’ambito propriamente scientifico, risemantizzando lo sguardo medico/antropologico/criminale sulla differenza in una sorta di spettacolo di intrattenimento, che permetteva alla borghesia metropolitana di sperimentare la possibilità di avere accesso all’esperienza della differenza in modo rassicurante all’interno del proprio spazio domestico:

“postcards and stereoscopic photographs titillated them [white audiences] with intimations of sexual attraction between white woman and black or Native American men; images of costumed microcephalics, masquerading as examples of “backward” races, were grotesque parodies of positivist reasoning”13.

Come afferma Coco Fusco analizzando la relazione tra “razza” e fotografia nella definizione dell’identità europea e americana tra XIX e XX secolo, il ritratto fotografico si affermò come dispositivo di massa di individualizzazione per la borghesia imperialista e industriale, attraverso il quale i cittadini bianchi europei e americani non solo si autorappresentavano, ma individuavano anche da chi erano diversi. Le immagini di questi Altri e del mondo intero venivano miniaturizzate e oggettificate attraverso il dispositivo fotografico, e poi collezionate, cioè fatte proprie, possedute. Nell’impossessamento dell’Altro attraverso la sua ri-produzione nell’immagine fotografica la borghesia metropolitana ebbe così accesso, direttamente dentro il proprio salotto, ad una forma di conoscenza razziale intimamente legata alla propria definizione identitaria. In questo senso, la costruzione e la collezione di ritratti tipologici agirono costruendo un luogo rassicurante per l’osservatore, un luogo in cui il potere di guardare e il piacere che ne deriva erano mantenuti slegati da ogni riferimento agli effettivi e concreti contesti coloniali. Le fotografie tipologiche che circolavano sottoforma di postcards e cabinet cards da collezione, nelle metropoli dei paesi coloniali, ritraevano soggetti e paesaggi di paesi altri, cercando di esaltarne la bellezza e la “naturalità”, costruivano e ripetevano nella trama dell’immagine (dalla posizione dei corpi dei soggetti ritratti, ai costumi che venivano fatti loro indossare, agli oggetti scenografici…) dei motivi, dei tropi visuali, i quali, proprio nella loro ripetizione, producevano il duplice effetto di rimuovere l’atto politico di costruzione della differenza razziale, occultando le dinamiche di potere e le radici violente di quegli incontri con l’Altro, e allo stesso tempo di bilanciare l’effetto destabilizzante dell’incontro visuale con la differenza, sollecitando nell’osservatore fantasie relative a una bellezza incontaminata, a un mondo istintuale e eroticamente invitante, oppure a un mondo “selvaggio” e “primitivo” da civilizzare.
Queste tre modalità di utilizzo della fotografia in relazione alla schedatura medica e criminale, alla costruzione di tipologie razziali in antropologia, e alla rappresentazione dell’identità borghese fra XIX e XX secolo, catturarono il corpo dell’Altro (e il corpo dell’osservatore borghese) in quello che il fotografo e critico Allan Sekula definisce uno “shadow archive”. L’archivio-ombra di cui parla Sekula organizza al suo interno i diversi archivi della fotografia manicomiale di Charcot, dei ritratti di tipologie criminali di Lombroso, quelli delle meticolose catalogazioni fotografiche di Bertillon, quelli formati in base alle norme individuate da Mantegazza per il corretto rilevamento fotografico dei soggetti etnografici e quelli delle collezioni private dei ritratti e degli autoritratti borghesi. In questo senso il dispositivo fotografico in relazione alla costruzione di archivi fu uno strumento per la definizione e delimitazione dello spazio identitario dell’altro, agendo contemporaneamente su “the generalized look – the typology – and the contingent instance of deviance and social pathology14. Questa grande collezione di ombre, questo “shadow archive”, funzionò producendo (piuttosto che riproducendo) a livello visuale tre alterità fortemente intrecciate: una esterna (il corpo razzializzato dei soggetti colonizzati), una interna alle società colonizzatrici (i pazzi, i criminali, gli omosessuali, le prostitute…), e infine una “privata”, quella nascosta negli album di collezioni fotografiche nei salotti borghesi. Si tratta di un archivio generalizzato, che include differenti micro-archivi, la cui interdipendenza viene resa invisibile dalla logica della sua coerenza più generale e dall’apparente estraneità e eterogeneità dei gruppi sociali (delle tipologie) individuate in ognuno di essi. Un dettagliato e generalizzato sistema di frammentazione, mappatura, catalogazione e memorizzazione della “verità” del corpo dell’altro, della sua irriducibile e autoevidente differenza.
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“Mal d’archivio”: l’arte contemporanea, il corpo, l’archivio

“Ci si domanderà sempre ciò che ha potuto bruciare, in questo mal d’archivio”

(Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005: p. 121).

Questa modalità di conoscenza dell’Altro – e del sé – affonda le sue radici nel periodo coloniale ma costituisce parte del materiale visuale che informa l’immaginario razzializzato contemporaneo sull’identità e sulla differenza. Molti artisti contemporanei lavorano, direttamente o indirettamente, a partire dai materiali visuali contenuti in questi archivi o sulla decostruzione del dispositivo stesso dell’archivio, mettendone in discussione l’autorità e considerandolo una forma di “colonialismo rappresentazionale”. Alcuni di questi artisti in particolare operano una sorta di rovesciamento dello sguardo etnografico sul dispositivo dell’archivio, penetrandone e dissacrandone innanzitutto proprio la sua condizione etnografica di sguardo appropriativo e di memorizzazione selettiva – che cioè, nel selezionare cosa ricordare, contemporaneamente rimuove dell’altro, sottraendolo allo sguardo futuro, alla possibilità di entrare a far parte di quelle sceneggiature sotterranee in base alle quali ogni presente (più o meno consapevolmente, più o meno conflittualmente) vive la propria connessione con la memoria. Così il lavoro critico di questi artisti si appunta sulle narrazioni dominanti veicolate dai dispositivi archiviali, sulle loro contraddizioni, sulle visioni che autorizzano (che rendono cioè insieme possibili e autorevoli) e sulle rimozioni che sottintendono, operandone traduzioni e tradimenti, riletture ironiche e posizionate, penetrandone i repertori non autorizzati delle fantasie, delle proiezioni, delle accumulazioni compulsive che sembrano sottrarsi alla leggibilità, eppure sono lì, oltre la traccia dell’evidenza.
Artisti come Lorna Simpson, Carrie Mae Weems, Zoe Leonard, si riappropriano di immagini e materiali d’archivio o del dispositivo archiviale stesso, collocandoli all’interno di inediti campi di referenze, sottoponendo a critica la costruzione stereotipata dell’identità che essi veicolano, e rimettendo in scena la rappresentazione della soggettività attraverso strategie di rovesciamento, di ri-semantizzazione o di ri-feticizzazione.
L’artista afroamericana Carrie Mae Weems lavora a partire dagli immaginari legati alla rappresentazione razzializzata nella cultura contemporanea statunitense, portandone alla luce i legami con il passato, più o meno rimosso, dello schiavismo, della segregazione razziale, dell’economia delle piantagioni. In From here I saw what happened and I cried, del 1995, l’artista lavora sulla traduzione e sulla risemantizzazione degli archivi visuali legati alla storia, alla memoria di questi eventi, a partire dalla rielaborazione dei dagherrotipi che negli anni cinquanta del XIX secolo il naturalista svizzero Louis Agassiz commissionò al fotografo statunitense J.T. Zealy. Lo scopo per il quale questi ritratti di schiavi provenienti da diverse regioni dell’Africa (tutti ritratti in piedi, nudi o seminudi, mostrati di fronte, di profilo e di dietro) furono realizzati era quello di provare la persistenza delle caratteristiche razziali nel tempo e nello spazio e l’esistenza di gruppi razziali diversi per origine biologica. I dagherrotipi, opportunamente selezionati, classificati e ordinati in serie da Agassiz, avrebbero dovuto fornire una sorta di dati empirici funzionali a legittimare una teoria formulata in precedenza (l’irriducibile diversità delle razze), rendendola auto-evidente per qualsiasi osservatore grazie allo statuto indiziario del dispositivo fotografico. Dopo essere stati perduti negli archivi del Peabody Museum di Harvard per più di un secolo, vennero riscoperti accidentalmente nel 1975, diventando le immagini simbolo della schiavitù dei neri in America.
Nell’opera citata l’artista riprende le immagini dei dagherrotipi e ne rilavora la messa in scena, avvicinando il punto di vista e incorniciandolo in un tondo, quasi a rappresentare il luogo dello sguardo del soggetto che guarda nell’obiettivo di una macchina fotografica. Il filtro rosso scuro e le didascalie sovrapposte alle immagini (pratica questa molto comune agli artisti che lavorano utilizzando un approccio etnografico) non fanno che esplicitare e far esplodere il potenziale di violenza rappresentazionale sotteso ai dagherrotipi di Agassiz, posizionando allo stesso tempo il soggetto che guarda nel luogo della costruzione della rappresentazione, costringendolo cioè, in un atto potenzialmente scioccante, a identificarsi con quel voyeurismo appiccicoso mascherato da oggettività scientifica, a immedesimarsi in quel modo di guardare, penetrandone e smascherandone così tutta la violenza simbolica: “You became a scientific profile”, “an anthropological debate”, “a negroid type”, “and a photographic subject”.

La riflessione intorno al dispositivo archiviale portata avanti dall’artista statunitense Zoe Leonard nell’opera The Fae Richards Photo Archive (1993-96) si dispiega da un processo metodologico completamente differente, a partire cioè da una rilettura critica del dispositivo archiviale stesso, ottenuta attraverso la ripetizione estremamente realistica e sottilmente ironica dei suoi meccanismi e delle sue pratiche. L’artista, in collaborazione con il filmaker Cheryl Dunye, mette in scena lo stratagemma dell’archivio intorno a un personaggio finzionale, Fae Richards, una immaginaria attrice afroamericana di Hollywood, il cui straordinario talento pare essere stato dimenticato nel vortice oscuro dell’amnesia culturale americana, senza dubbio per il suo essere nera. Zoe Leonard costruisce una intera sceneggiatura e una messa in scena credibile della sua vita, attraverso 78 scatti fotografici che “documentano” la sua storia, dall’adolescenza a Philadelphia nei primi anni ’20 fino all’apice del suo successo negli anni ‘30 e ’40 in ruoli cinematografici stereotipati (come mamy, domestica, cantante e ballerina alla Josephine Baker, e infine nel ruolo che la portò al successo come “watermelon woman” nel film “Plantation Memory”), poi all’epoca dei diritti civili degli anni ’60, fino alle immagini più familiari di lei anziana nel 1973. Le immagini fotografiche sono costruite e trattate in modo tale da sembrare parte dell’archivio privato dei ricordi intimi di Fae: in molte fotografie sono con lei fratelli, amanti, amici; gli abiti e le ambientazioni sono progettati per corrispondere al periodo a cui si riferiscono, sottolineando il carattere etnografico di ogni dispositivo archiviale che, attraverso le modalità della sua costruzione, parla molto innanzitutto del periodo storico e culturale che lo ha prodotto. A ogni immagine corrisponde inoltre una didascalia stampata con caratteri vintage, spesso piena di errori ortografici e correzioni a penna. Notazioni scritte a mano a margine di alcune foto con gli angoli rovinati o stropicciate, o strappate e poi riattaccate, aggiungono ancor più autenticità a questo archivio dimenticato. Zoe Leonard chiede dunque all’osservatore di ricostruire, attraverso le immagini e le didascalie, la storia di Fae Richards, costringendolo a chiedersi perché Hollywood ha rimosso questa stella indiscussa dal suo firmamento (ci sono le fotografie a “testimoniare” il suo talento e il suo successo), ma soprattutto a fare i conti con i propri sensi di colpa per averla dimenticata, con le proprie intime motivazioni per questa rimozione. L’osservatore ricostruisce la storia privata e la carriera di una donna “fuori dagli schemi” (anche per via della sua omosessualità, alla quale si fa velatamente più volte riferimento nelle didascalie di alcune fotografie) che tuttavia non è mai riuscita a uscire da quegli schemi che la rinchiudevano nell’immagine stereotipata della “donna cocomero”, ricostruendo così anche lo scenario razzializzato dell’industria cinematografica hollywoodiana intorno agli anni ’30 e ’40 del Novecento, che fa parte del suo stesso bagaglio identitario. L’effetto di realtà, la ricerca e la ricostruzione accurata di una autenticità nell’archivio di Fae Richards, non sono altro che strategie tese a sostenere la credibilità della storia che viene raccontata, a patto di arrivare a leggere i credits finali, nei quali Zoe Leonard mostra all’osservatore l’elenco dei personaggi che hanno lavorato alla messa in scena, svelandone infine la natura finzionale. L’archivio ne emerge dunque come un dispositivo narrativo, inventivo, attivo non nella riproduzione di una storia o di una identità, bensì nella sua costruzione, attivo nel selezionare cosa ricordare (e come ricordarlo) tanto quanto nel mettere fuori scena, nello scartare ciò che non può o non deve essere ricordato, e che tuttavia resta presente nell’archivio stesso, invisibile rilievo del visibile, come traccia di un’assenza. L’archivio mostra, mette in scena porzioni di una storia, e nello stesso momento ne rimuove attivamente delle altre, svelandone tuttavia l’esistenza proprio nell’atto di nasconderle15.

È proprio a partire dal gioco tra visibile e invisibile che prendono forma alcune opere dell’artista afroamericana Lorna Simpson, che incrociano l’ambiguità della fotografia come strumento identificativo e l’archivio come dispositivo di costruzione di un ordine, di istituzione di un luogo di impressione, di istituzionalizzazione di un modo di guardare. In Untitled (Guess who’s coming to dinner) del 2001 e in Study del 2002 l’artista sembra chiedersi, con Derrida, come sia possibile parlare di una “comunicazione degli archivi” senza prima prendere in considerazione “l’archivio dei mezzi di comunicazione”16. In altre parole, nelle opere prese in esame Lorna Simpson, allo scopo di mettere in questione i meccanismi attraverso i quali il dispositivo archiviale mette in scena e comunica l’identità, prende in considerazione prima di tutto i diversi micro archivi che hanno contribuito a costruire i repertori possibili della rappresentazione razzializzata.

In entrambi i lavori adotta il ritratto fotografico come luogo cruciale a partire dal quale costruire la propria contro-narrazione delle pratiche archiviali e affermare la contiguità tra gli immaginari legati alla fotografia tipologica del XIX e XX secolo e quelli legati agli archivi cinematografici, letterari, artistici e della cultura di massa. In Untitled l’artista ordina all’interno di una griglia 43 ritratti, alternando cornici rettangolari a ovali (ancorandosi alle due pratiche legate al ritratto fotografico, una strettamente identificativa, l’altra affettiva) e sovrapponendo una lastra di plexiglass trasparente che, oltre a rendere il gioco identificativo al quale le immagini invitano uno scivoloso tranello, porta incisi su di sé i titoli di alcuni film dell’industria culturale americana prodotti tra l’inizio del XX secolo e i tardi anni ’60. La visione stereotipata legata al corpo nero, quel processo di epidermizzazione di cui parla Fanon17, per il quale la “razza” è letteralmente incisa sulla pelle del soggetto nero, rimbalza così dagli immaginari della fotografia tipologica del XIX secolo a quelli dei primi film hollywoodiani, fino a quelli legati alla blaxploitation, che nel tentativo di criticare lo stereotipo (negativo) sul corpo nero non fanno altro che riprodurne un altro, seppure di segno opposto. In Study l’artista mette in campo una strategia simile, citando questa volta gli archivi della storia dell’arte, i titoli di famosi quadri che possono essere trovati nelle collezioni dei musei americani, che ritraggono il corpo maschile nero in modo stereotipato o feticizzato (Study of a Black Man, A Negro Prince, African Youth). Questo approccio punta così a rovesciare lo sguardo etnografico su se stesso, allo scopo di penetrare l’archivio dell’immaginazione americana sul corpo razzializzato (tanto riguardo la blackness quanto la whiteness), svelandone il radicamento nella fantasia e nel desiderio, facendo letteralmente bruciare il dispositivo archiviale nel suo stesso fuoco. Portando alla luce cioè quella passione che sta prima e alla radice di ogni archivio, quel mal d’archivio che rivela “l’impazienza assoluta di un desiderio di memoria”18.

 

*Immagine in home: Lorna Simpson, Untitled (Carmen Jones), 2001 (particolare). Gelatin silver prints under semitransparent Plexiglas with vinyl lettering. Diptych, 18.5 x 40 inches overall.

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1James Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino 1993 (Ed. or. 1988, The Predicament of Culture, Harvard University Press, Cambridge).
2Ivi, p. 252.
3Nicholas Mirzoeff, 2003, The Shadow and the Substance: Race, Photography, and the Index, in Fusco C., Wallis B., Only Skin Deep. Changing Visions of the American Self, Abrams, New York. AA VV, 2003, Zoo umani. Dalla Venere Ottentotta ai reality show, Ombre Corte, Verona.
4Clifford, op. cit., p. 254.
5Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980. Mirzoeff, op. cit.
6Allan Sekula, The Body and the Archive, in Fraser M., 2005, Greco M., The body, Routledge, Oxon and New York 1986.
7In questo periodo le fotografie di soggetti razzializzati venivano realizzate per lo più in modo decontestualizzato: nel caso dei nativi americani si trattava nella maggior parte dei casi di immagini scattate in occasione delle visite a Washington dei loro delegati, mentre in Europa si sfruttava la presenza di soggetti provenienti dai paesi colonizzati, fotografati soprattutto all’interno delle Esposizioni Universali, delle esibizioni nei giardini zoologici oppure in studi fotografici. All’interno di questi ultimi, la presenza di sfondi dipinti o di oggetti scenografici, di costumi e accessori che venivano fatti indossare ai soggetti fotografati, aveva lo scopo di “contestualizzare” l’immagine, di renderla maggiormente “autentica”, secondo una visione del tutto stereotipata dell’Altro, come selvaggio o come feroce cacciatore o come donna sessualmente disponibile.
8Brian Wallis, Black Bodies, White Science: Louis Agassiz’s Slave Daguerrotypes, in Fusco C., Wallis B., Only Skin Deep. Changing Visions of the American Self, Abrams, New York 2003.
9Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 66.
10Barthes, op. cit., p. 15.
11Non è un caso se per Freud lo specchio è uno dei dispositivi che attivano il perturbante (Freud, 1977).
12Barthes, op. cit., p. 14.
13Coco Fusco, Racial Time, Racial Marks, Racial Metaphors, in Fusco C., Wallis B., Only Skin Deep. Changing Visions of the American Self, Abrams, New York 2003, p. 21.
14Sekula, op. cit., p. 164.
15Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 2007.
16Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005.
17Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche: il nero e l’altro, Tropea 1996.
18Derrida, op. cit., p. 3.