DESIRE
Memoria, desiderio e futuro degli archivi in Sudafrica. Una vicenda (post)coloniale
di Alessandra De Angelis

Durante la “Transizione” (dal 1989 al 1996 ca.)  ̶  e cioè nei difficili anni di passaggio dal regime segregazionista dell’apartheid all’affermazione della costituzione nazionale democratica, con la vittoria dell’African National Congress di Nelson Mandela nel 1994  ̶  il Sudafrica attraversa una vera e propria rivoluzione culturale. Dopo quasi mezzo secolo di razzismo istituzionalizzato e biopolitica sfrenata, il desiderio di espressione degli intellettuali, degli artisti − ma anche di chi non manifesta la propria creatività attraverso l’espressione estetica − si feconda di quell’entusiasmo che proviene movimenti politici e civili antiapartheid, a loro volta sostenuti dalla lotta di Mandela prima e durante i lunghi anni di prigionia. Il romanzo e la poesia, il teatro e le arti visuali trovano linfa per nutrire un bisogno di riscrivere il presente e immaginare il futuro, ma anche per criticare soluzioni e conciliazioni avvertite come troppo semplici, a cui il processo di ricostituzione nazionale aveva portato. La Truth and Reconciliation Commission è l’organo istituzionale − organizzato come un tribunale, ma non avente alcun potere penale fatto salvo quello dell’amnistia − che in quegli anni si occupa di raccogliere testimonianza delle ferite e delle perdite incolmabili che il paese e i singoli individui avevano subito. Essa raccoglie anche la pesante eredità delle ammissioni di colpevolezza, o delle negazioni di responsabilità, dei cosiddetti “carnefici”.

Non è un caso che il fiorire di nuove narrative e visioni artistiche s’intrecci con le critiche al processo amnistiante che sorgono intorno alla TRC (acronimo della Commissione). Essa vi figura, quasi indirettamente ma sempre sullo sfondo, come un prototipo di “archivio”: un dispositivo di gestione e selezione delle memorie, mosso dal desiderio di arginare i fantasmi di un passato violento per controllare le sue tracce, e proteggere il futuro di una comunità in cerca di guarigione politica e spirituale. Jacques Derrida ne sottolinea la vocazione pubblica alla commemorazione: un archivio, egli dichiara, è sempre per antonomasia una questione pubblica, persino quando è privato.1 Esso si nutre infatti di esibizione e condivisione, ma ancor di più di esteriorizzazione della memoria, di consegna all’esteriorità, si potrebbe riassumere parafrasando lo stesso Derrida di Mal d’archive. Une impression freudienne (1994).2

Con il filosofo si confrontano alcuni intellettuali sudafricani; in particolare in <<The Power of the Archive and its Limits>> Achille Mbembe adopera il termine <<cronofagia>>, sulla scia di Mal d’archive,  per riassumere il rapporto tra Stato e archivio (<<a cronophagic act>>, in Hamilton, Harris et alii., 2002, pp. 19-28, passim). Attraverso due modalità apparentemente opposte, l’istituzione nazionale si confronta con la memoria del dolore, delle rovine (<<debris>>, ibid.) e dei fantasmi regolamentandola e arginandola. Da un lato c’è l’atto cronofagico vero e proprio, che è la distruzione e la negazione dell’archivio, dall’altro la sua controparte: la commemorazione, l’istituzionalizzazione e pubblicizzazione di massa che Mbembe chiama <<memoria talismano>>. Si potrebbero  ridefinire i termini come “oblio forzato” e “eccesso di memoria”, seguendo il dibattito filosofico e storico che inizia con Platone e prosegue nei secoli, per infiammarsi durante e dopo i grandi massacri del 1900 con Vladimir Jankélévitch, Pierre Nora, Paul Ricoeur, Tzvetan Todorov, solo per citare alcuni tra i maggiori studiosi che hanno affrontato l’argomento. L’archiviazione, ci ricorda dunque Mbembe, è un atto mortale, cannibalico, che si nutre dello stesso tempo che vorrebbe salvare. Piuttosto che una protezione, anche abusata come talismano, è ciò da cui la vitalità del gesto che vuol lasciare segno e memoria vivente dovrebbe proteggersi.

E’ proprio qui, in questa cornice che tiene insieme la memoria, l’archivio e il desiderio (anche quando, in Derrida e Mbembe, quest’ultimo si configuri come legato alla morte), che l’eccezionalità della TRC – così partecipata e sentita da grande parte del tessuto sociale sudafricano, profondamente e diffusamente civile anche quando impopolare − in qualche modo eccede e aggira i suoi limiti, nel suo infinito potere generativo di critiche, commenti e domande. A muoverla infatti, pur nei suoi dichiarati limiti temporali, epistemici, epistemologici, politici e quant’altro, sembra essere un desiderio (questo sì illimitato, e costretto a scontrarsi con le sue impossibilità) di condivisione e di progettazione, quand’anche sulle rovine. Anche quando fallisce, tentenna o si piega al ricordo incontenibile del dolore, ha la capacità di far vibrare energie apparentemente lontane o estranee al suo contesto politico e geografico. Non sono solo le sue aporie irrisolvibili – il perdono, l’ospitalità, il lutto, per dirla con Derrida ancora una volta – a suscitare coinvolgimento intellettuale e spirituale. Ciò che colpisce è quel desiderio così percepibile di volersi sentire comunità, tessuto spirituale oltre che psicologico e sociale,3 che forse non ha molto a che fare con il recuperare i ricordi, ma con il sognare ancora, il re-figurare, che è in stretta dipendenza dal presente e dal futuro. Il lavoro della TRC, così com’è stato vissuto da chi ha partecipato ai limiti della sopportazione, della vergogna e del senso di colpa, piuttosto che come è stato organizzato dai progetti nazionali di stato e chiesa che hanno coinvolto anche Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu, ha forse più a che fare con il <<messianico>>, il da-venire che non è salvezza divina o avvento, ma rivelazione intrinseca, illuminazione e nuove prospettive del pensiero (Mal d’archive, 1994).

Torniamo al lavoro archiviale della TRC: una speciale sezione, la Gender Commission, ha portato a testimonianza le donne. Ad animare questa scelta, la consapevolezza di una differenza di genere nella percezione e natura del trauma. E proprio a questo speciale “call for testimony”, se così si può definire, sembrano rispondere le molte opere letterarie, artistiche, storiche e antropologiche che riportano alla luce una vicenda di quasi quattro secoli precedente, eppure più attuale di altre narrazioni che si affastellano nel contemporaneo sudafricano: è la “vicenda Krotöa”. Nata intorno alla metà del XVI sec. tra i Khoikhoi di Cape of Good Hope, Krotöa, sin dall’età di dieci anni circa, fu dapprima bambinaia dei figli del capitano della colonia olandese, Jan van Riebeeck, e poi interprete di altissimo livello tra la sua gente e i colonizzatori, nonché guida di quasi tutte le spedizioni commerciali all’interno del Capo di Buona Speranza. Fu parzialmente assimilata alla cultura olandese, e poi battezzata. La sua straordinaria abilità nelle maggiori lingue europee dell’epoca la rese molto preziosa per van Riebeeck, che mantenne nei suoi riguardi, tuttavia, un atteggiamento sempre ambiguo, oscillante tra l’ammirazione sconfinata e il sospetto. Innamoratasi del medico danese con il quale aveva collaborato (era esperta di erbe mediche), e sposatolo, ebbe cinque figli, i primi Cape Coloureds ufficiali del Sudafrica. E’  per questo che il suo nome circola tra gli afrikaner bianchi appassionati di alberi genealogici, che malati di febbre d’archivio e desiderosi di dichiararsi anch’essi “Cape coloureds” si rifanno all’antenata di colore, “l’utero arcobaleno” (the “rainbow womb”), l’unificatrice biologica delle fratture di una nazione distrutta dall’apartheid.

Eppure, Krotöa rifiutò in vita quest’assimilazione così potente: sempre “in-between” tra la sua gente e il forte olandese, l’interprete khoikhoi smetteva periodicamente gli abiti batavi che indossava nella colonia per coprirsi di pelli e ritornare nelle terre interne per periodi molto lunghi. Dopo la morte del marito, rimasta sola e deprivata di ogni contatto familiare, divenne alcolizzata e terminò i suoi giorni confinata nell’isola prigione di Robben Island, dove morì di sifilide a trentatré anni. Durante la sua ultima apparizione pubblica ufficiale prima della detenzione, a una cena di gala con alcuni rappresentanti del governo olandese, Krotöa imprecò contrò la Compagnia nella sua lingua madre, abbandonando il tavolo e i figli, la cui custodia, in seguito, le fu tolta. Come sottolinea la scrittrice e intellettuale sudafricana Zöe Wicomb, quell’imprecazione fu l’atto linguistico performativo con cui l’interprete rifiutò di farsi tradurre, negando la sua appartenenza integrale alla cultura e la lingua europea, per lei fonti di violenza  e solitudine.4 Pertanto, ogni tentativo di parlare per lei, o di adoperarla come un vessillo, adottato acriticamente, di unificazione nazionale, si rivela un tentativo di traduzione culturale imposto nuovamente con violenza a chi già in vita − ma quasi come a fare testamento – aveva dichiarato di non voler essere assimilata.

E’ proprio su questa impossibilità della traduzione culturale e della riconciliazione integrale dopo le eredità violente del colonialismo e delle sue conseguenze razziste che si incentrano gli studi e le produzioni artistiche di livello su Krotöa; Wicomb stessa ritorna sull’argomento, ancor più lapidariamente, nel romanzo del 2001 David’s Story, in cui la storia dell’interprete è dismessa appena accennata, con la motivazione espressa che non se può parlare; la vicenda è così subito lasciata andare in poche righe, con la  narratrice intradiegetica che dichiara, fin dalla prima pagina: <<David’s story started at the Cape with Eva/Krotöa, the first Khoi woman in the Dutch castle, the only section I have left out.>>.5 Karen Press, nel bellissimo poema <<Krotöa’s Story>>,6 adopera molte immagini falliche che evocano non solo fecondazione, ma violenza sulla natura e soprattutto sulla donna Krotöa, che è persa tra due culture entrambi maschiliste. Schiacciata fra richieste che non vuole e non può soddisfare, l’interprete comprende l’unica verità cui le è dato di accedere: <<I’ve learnt something now / I tell them what they want to hear / And they love me for it.>>7. Anche qui, come in Wicomb, l’attenzione è rivolta al simbolico: in maniera transitiva (parlare di lei) o intransitiva (il suo accesso al discorso come soggetto), è il linguaggio il protagonista di molte narrative su Krotöa.

A questa regola non sfugge nemmeno André Brink, il prolifico e fantasioso romanziere e saggista sudafricano che in Imaginings of Sand (London: Secker & Warburg 1996) contamina la vicenda con elementi di sogno, come dono a un continente che vuole reinventarsi andando oltre la propria storia; egli trasla la storia dell’interprete in quella della bella e intelligente Kamma / Maria, che riesce a impedire la guerra aperta tra i khoikhoi e i boeri promettendosi in sposa a uno di quest’ultimi. Amata e temuta, Kamma termina i suoi giorni nell’abbandono, reietta dalla casa maritale e dal gruppo natio che ha accettato i suoi figli, ma non la sua duplice vita ritenuta pericolosa per la comunità, e che per questo le ha tagliato la lingua. In Islands (2005, London: Vintage, tit. originale Eilande, 2002) Dan Sleigh propone Krotöa come ava fondatrice dell’intero paese multicolore, e musa ispiratrice di un romanzo dal tono fortemente epico. Tuttavia, è sua figlia Pieternella, una “coloured”, a rappresentare la speranza e il sogno della comunità in cerca di radici miste. Krotöa è ridotta a donna infelice e vittima delle circostanze, ma soprattutto isterica e violenta, e dalla lingua velenosa incapace di gestire il conflitto (<<cursing tongue>>, in Sleigh, passim). E’ così che un archivista bianco progressista, alla ricerca dell’ava meticcia che possa legittimare l’appartenenza alla comunità arcobaleno, espunge acriticamente dal discorso l’interprete nera che la colonizzazione distrusse psicologicamente, a favore della sua socialmente più accettabile figlia meticcia, vera madre, musa e desiderio degli uomini valorosi che iniziarono la vita a Cape of Good Hope. Egli ripete ciò che un’altra archivista, Mary Cathleen Jeffreyes, già nel 1959 aveva denunciato, circondata dalla follia archiviale di un razzismo istituzionalizzato attraverso la burocrazia e le definizioni discorsive: <<The Afrikaner has denied the Coloured mother. He has denied the Coloured originator of his language.>>8 Mosso dal desiderio di scrivere un’epica del paese, forse per riunificarlo, Sleigh non spende molte parole per tributare il giusto valore al talento dell’interprete, che non è tanto all’origine, come sottolinea Jeffreyes,  del linguaggio (che è nato da una fecondazione spesso violenta di idiomi diversi), quanto di una condizione di go-between tra molteplici lingue non assimilabili, una dimensione interlinguistica  di movimento che potrebbe suggerire possibilità differenti di convivenza non forzata.

C’è invece un’altra archivista a denunciare, mezzo secolo dopo, la violenza epistemica connessa a questa vicenda ambivalente di desiderio e ripulsa (perchè tali si configurano le relazioni coloniali, come sottolineano Ann Laura Stoler e Robert Young);9 con il commovente romanzo Krotöa-Eva. The Woman from Robben Island, Trudie Bloem racconta una storia di rapporti dolorosi conseguenti a separazioni e convivenze forzate, una sequela di genealogie femminili interrotte, biologiche e simboliche. Qui, come nel saggio storico e antropologico di V.C. Malherbe (Krotöa, called ‘Eva’, a Woman Between), la condizione di traduttrice è equiparata, come in ogni vicenda coloniale degli esordi, a uno stato di sofferenza e tensione insanabile, conseguenti al pregiudizio che voleva i traduttori come traditori, ma soprattutto le donne interpreti come mine vaganti e inaffidabili.10

Nel cuore del processo di riscrittura di questa storia coloniale, nel 1998, lo studioso Pieter Conradie sembra rafforzare l’ipotesi di Zöe Wicomb, non a caso parlando di traduzione e trasgressione, o di traduzione mancata.11 Di Krotöa, egli sostiene, si è fatto un sostegno per le proprie nevrosi, e soprattutto per quel desiderio malcelato di oppressione – masochismo? Simbiosi che non vuole sciogliersi? – che l’insistenza sulle sue vicende sembra rivelare a un’analisi di stampo lacaniano. Ed è proprio allo psicoanalista francese che egli si rifà, e alla sua celebre teoria sullo sguardo come “oggetto ‘a’”, cioè come funzione del desiderio nel campo scopico, in Le séminaire, Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, 1964.12 L’interprete fungerebbe da catalizzatore di ogni pulsione che gode dell’oppressione e che si manifesta attraverso lo sguardo (che cerca conforto e identificazione negli occhi di Krotöa); il ricorso alla sua vicenda per fini di traduzione culturale, cioè per traslare la violenza e l’ingiustizia subita dal personaggio storico alla contemporaneità politica o alla lotta di genere, sarebbe quantomeno vana, se non dubbia. Il punto di vista di Conradie – e non a caso adopero questo termine nel contesto del campo scopico cui lui stesso decide di fare riferimento teorico, non senza iscriversi a sua volta – è, o vorrebbe porsi come esterno alla vicenda e alla costellazione di responsabilità epistemiche che essa comporta. Come se tirandosi fuori dai giochi, adottando però uno sguardo esterno che pone ancor di più Krotöa come oggetto d’analisi (a maggior ragione perché la distanza gli consente di ritagliare una visuale più ampia che include le narrative su di lei), egli potesse definirsi libero dalla dinamica sado-masochista che sembra riconoscere. Il suo intervento palesa una freddezza, se così si può dire, politica: non è possibile tacere di una realtà, seppure così addietro nel tempo, che ha così influenzato le sorti della colonizzazione e il presente del paese. A parte Brink, che pur nel suo riconosciuto “machismo” autoriale restituisce una narrazione di rara bellezza poetica e immaginifica, sono solo donne ad assumersi la responsabilità, o meglio la “cura”, di non lasciar svanire la testimonianza che una donna khoikhoi del XVII secolo sembra dovere ancora portare, non tanto per archiviare meglio il passato, quanto per dare una voce e articolare delle domande riguardo le contraddizioni  del presente e del futuro del Sudafrica. E’ un desiderio di cura che muove dalla vita, non dalla morte. Anche Wicomb, quando sostiene l’irriducibilità di Krotöa alla traduzione, non lo fa per criticare l’atto in sé, quanto per porre una questione etica, di “modalità”, per una differente traduzione che non vuole farsi appropriazione e manipolazione critica o politica.

Così, tra le tante sponde attraverso cui naviga e da cui si lascia lambire, Krotöa sembra ancora sopravvivere nell’atto di traslazione/ traduzione letteraria, come se la sua storia e il suo lascito di domande fossero consegnati alle parole postume di altre; non è tanto una sola traduzione, o molte, a farla rilucere, quanto la condizione stessa di “vivere in traduzione”, così come lo fu in vita. Qual è allora il suo contributo alla riunificazione nazionale? La sua storia di dolore, separazione, “fecondazione impura”, violenza e talento, che eredità lascia al paese che lotta per convivere pacificamente con tutte le parti di sé? Da dove vengono questo ricordo e questo desiderio di tracce miste, dal passato degli archivi o dal futuro messianico che preferisce farsi domanda e transito, piuttosto che deposito di certezze? Queste domande non possono essere risolte, perché sono più un impegno di cura per ciò che è da venire, che un’ermeneutica storica o etica da riscoprire.

C’è un’altra opera che sembra integrare in questa “faccenda archiviale”, in maniera iconica e immediata, la presa d’atto dell’inconciliabilità e al contempo della necessità della convivenza. Nel 1995, nella Grain Cellar di Cape Town Castle, ex fortezza coloniale a guardia di Cape of Good Hope, ora sede museale e galleria d’arte, la fotografa e artista visuale sudafricana Lien Botha presenta <<Krotöa’s  Room>>; al cuore di  queste installazioni (con la collaborazione di Raymond Smith) c’è un lavoro fotografico che rielabora le fattezze melanconiche e bellissime di una donna khoikhoi, un ritratto in bianco e nero di P.W. Laidler, del 1939, comunemente adoperato per rappresentare il volto di Krotöa (e che è anche l’immagine di copertina del romanzo di Bloem), che sembra assorbire e al contempo restituire ogni sguardo.

Lien Botha, “Tafelgebed”, Krotöa’s Room, 1995. Photograph

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Sovrapposta, in una simbiosi tanto perfetta quanto ingannevole, c’è una madonna ricca di colori e con tutti i simboli cristiani: il cuore sacro trafitto da una spada, i gigli, le mani al petto. L’aureola di Maria (Kamma?) sembra incorniciare anche l’altro viso, mentre al cuore dell’immagine spicca l’occhio della “ottentotta”, quasi a incarnare il desiderio che si alimenta di lei: il fantasma, che abita scomodamente le domande di un paese ancora in cerca di un modo di convivenza, di una possibilità di cittadinanza condivisa. Il titolo dell’opera è <<Tafelgebed>>, un lemma afrikaans che indica “benedizione”, “grazia”, ciò per cui si prega (“das gebed”, la preghiera) tutti insieme intorno al desco, soprattutto nelle tradizioni protestanti (“der tafel”, il tavolo). Impressi su un’altra fotografia della serie (che pure ritrae persone di diversa etnia e tradizioni), e poi come effigie dell’intera mostra, i versi di Karen Press recitano: <<Parts of a story superimposed on other parts./ Force them to look at each other in the same room./ There is no skin separating them.>>

La “stanza” di Krotöa è un luogo chiuso e asfittico, la cantina di un castello dove convivono storie tanto diverse da non potersi fondere, e che tuttavia devono imparare a stare insieme. La benedizione, se c’è, è quella di poter sedere allo stesso tavolo, di avere un tavolo, per discutere della <<sfera pubblica>> senza <<caderci addosso a vicenda>>; il desiderio da realizzare è quello di un mondo costituito dai <<rapporti tra coloro che abitano insieme il mondo fatto dall’uomo […] come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-fra, mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo.>>1 Se nelle parole di Hannah Arendt è la politica la trascendenza immanente del mondo, ciò che precede, eccede e sempre contiene la condizione umana impedendole di collassare, qui, preso atto delle aporie irrisolvibili della politica post-apartheid e postcoloniale, come pure di quel grandissimo tavolo che fu e resterà la Truth and Reconciliation Commission, è l’arte a ospitare, contenere e curare le tensioni della vita civile, registrando un desiderio di comunità che sopravvive a ogni difficoltà, e che sempre ci interroga.

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1Invitato a Cape Town per un seminario sulla ‘rifigurazione’ dell’archivio, Derrida ribadisce il legame tra questo e la morte, l’oblio, il lutto; la cancellazione della dinamicità e vitalità della traccia originaria avviene attraverso il tentativo apparente della sua invenzione e  preservazione. Egli accenna al legame – che lascia però ripensare agli intellettuali sudafricani – tra questa ‘archiviolitica’ e il lavoro della TRC. ll seminario trascritto è raccolto con altri saggi in Carolyn Hamilton, Verne Harris, Jane Taylor, Michele Pickover, Graem Reid e Razia Saleh, Refiguring the Archive, Cape Town: David Philip, 2002. Il volume ospita un interessante faccia a faccia del filosofo franco-algerino con gli studiosi e con alcuni archivisti sudafricani, riportato nel volume in una veste grafica di pagine affiancate, quasi a enfatizzare il confronto.
2Nell’edizione italiana tradotta da Giovanni Scibilia è Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli: Filema, 1996.
3Per la memoria come reintegrazione spirituale ed ecologica del sé nella comunità, si legga M. Jaqui Alexander, Pedagogies of Crossings, Meditations on Feminism, Sexual Politics, Memory, and the Sacred, 2005, Durham and London: Duke University Press.
4Wicomb, Zöe (2002), “Translation in the Yard of Africa”, Journal of Literary Studies, 18.(3/4), University of South Africa.
5Zöe Wicomb (2001), David’s Story, Cape Town: The Feminist Press, cit. a p. 1.
6in Karen Press (1990), Bird Heart Stoning The Sea, Cape Town: Buchu Books.
7Press, “Krotöa’s Story”, cit. a p. 61.
8Marie Kathleen Jeffreys, “It’s A Heavy Debt, All That the Afrikaner Owes the Coloured”, Drum, Dicembre 1959, p. 39. Sono Natasha Distiller e Meg Samuelson in “Denying the coloured mother”, Gender and race in South Africa”, Eurozine –  the netmagazine, 2006 (in http,//www.eurozine.com/articles/2006-03-02-distiller-en.html, consultato il 7 Novembre 2007), a introdurre gli scritti di Jeffreys all’interno di una ricerca sui tropi femminili e materni della nazione sudafricana, poi confluita nel volume di Samuelson Remembering the Nation, Dismembering Women? Stories of the South African Transition, 2007, Scottsville: University Of Kwazulu-Natal Press.
9Stoler, Ann Laura Carnal Knowledge and Imperial Power. Race and the Intimate in Colonial Rule, 2002, Berkeley and Los Angeles: University of California Press; Young Robert J.C. , Colonial Desire, Hybridity in Theory, Culture and Race, 2005, London: Routledge.
10Trudie Bloem, Krotöa-Eva. The Woman from Robben Island, 1999, Cape Town: Kwela Books; Victoria C. Malherbe, Krotöa, called ‘Eva’, a Woman Between, 1990, University of Cape Town: Centre for African Studies.
11Pieter Conradie,  “The Story of Krotöa (Eva), Translation Transgressed”, Journal of Literary Studies 14, (1/2), pp. 55-66, 1998.
12Il testo di Jacques Lacan è tradotto in italiano con: Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, a cura di Giacomo Contri, Torino: Einaudi, 1964.
13Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, trad. di Sergio Finzi, 2009 Milano: Bompiani, cit. a p. 39. Tit. originale The Human Condition, 1958.

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Alessandra De Angelis è assegnista di Ricerca all’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale” (UNO) per il progetto europeo MeLa – European Museums in an age of Migrations; ha insegnato Letteratura inglese postcoloniale all’UNO dal 2007 al 2010; ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in “Studi culturali e postcoloniali del mondo anglofono” (UNO) nel 2010, con una tesi dal titolo “Sulle tracce di Krötoa: storie, memorie e icone del Sudafrica post-apartheid”. Ha pubblicato articoli di arte, letteratura e cinema delle ex-colonie di lingua inglese, particolarmente del continente africano.