LIQUID BORDERS
Trasformare non informare. L'artista come medium sociale tra informazione digitale e società liquida
di Stefano Coletto

Se accettiamo la presenza di una modernità liquida nell’accezione di Bauman (http://it.wikipedia.org/wiki/Zygmunt_Bauman), non possiamo non riflettere sulle caratteristiche che acquisisce in questo contesto il termine “confine”. Chiediamoci in una società liquida i confini cosa sono, se, ancora fisicamente, muri, strutture rigide, barriere, oppure mari e fiumi, spazi geografici, o ancora decisioni politico – amministrative stabilite da commissioni riunite attorno ai tavoli dove si tracciano le mappe degli Stati; ancora, gli stereotipi culturali e sociali della società dei consumi, le riflessioni identitarie più o meno nazionaliste e razziste, le disuguaglianze economiche, oppure, oggi, il divario digitale e quindi la differente capacità di influire nello spazio delle reti di comunicazione.

Anche se in alcuni paesi le relazioni sociali e i fenomeni connessi ben si descrivono nell’aggettivo “liquido”, anche se i confini materiali, le figure e i valori di riferimento sociali sembrano disgregarsi rimangono comunque confini più subdoli, che si innestano con potenza e pericolosità nelle vite dei popoli. Sistemi di informazione che stimolano la paura e riflessioni superficiali sull’esistente rinforzano le teorie che riducono l’altro al diverso, che trasformano il possibile incontro in una presa di distanza, la socializzazione in dialoghi alienati dai corpi vivi.

Quando si toglie un confine si fa esplodere ciò che quel confine ha diviso; togliere i confini senza mediazione può significare liberare uno scontro non gestibile. Quindi progettare un’azione culturale significa “mediare”, ovvero rielaborare le tensioni incorporandole per un cambiamento gestibile a livello della corteccia, la parte più evoluta del nostro cervello e non dell’amigdala; quindi lavorare sul complesso meccanismo umano e sociale di produzione culturale, l’insieme della riflessione scientifica e tecnologica e a quelle filosofica e artistica che dovrebbe poi trovare sintesi nelle decisioni politico – amministrative.

Non aiutano in questo processo la retorica che divulga e incita alla libera informazione come strumento di emancipazione e di trasformazione della dittatura in democrazia. Le informazioni sono sempre materiale grezzo da sviluppare, organizzare comprendere mentre gli strumenti di comunicazione, che non sono strumenti neutri, sono dispositivi per il profitto di gigantesche società globalizzate. Un sintomo di manipolazione e colonizzazione attraverso i media digitali e quindi di non percezione della complessità dei fatti si è manifestato negli eventi della cosiddetta Primavera Araba, quando si continuava a ripetere che le rivolte erano avvenute grazie  ai social netwok, alle comunicazioni in 140 caratteri, ai video dei telefonini.

Uno sguardo quindi a quello che accade ed è accaduto nell’area del Mediterraneo negli ultimi anni, senza ripercorrere le innumerevoli vicende di un territorio che è stato per molti decenni il centro di avvenimenti cruciali per la storia dell’uomo, dimostra che nessun conflitto è mai sopito, che ci sono contesti in cui per così dire le acque ristagnano o crescono fino a travolgere le dighe o i bacini che dovrebbero contenerle (cfr Alain Badiou, Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, Ponte Alle Grazie, Milano 2012).

E’ l’ossessione per la realizzazione della rete delle reti, in grado di unire tutti e metta tutti in comunicazione e quindi ci renda soggetti anche a sofisticati sistemi di controllo, come solo il digitale permette, che conduce all’affermazione che basta una connessione per liberare un popolo; in realtà la connessione digitale permette di accedere alle informazioni, ma ci conduce in uno spazio assolutamente controllabile che permette la tracciabilità delle nostre ricerche, delle nostre attitudini, dei nostri interessi.

Quindi in qualche modo diminuisce il grado di libertà, indirizza l’individuo in spazio alieno ed artificiale gestito da Enti e Individui che hanno più potere di noi; induce ad azioni che non sono il risultato di una adeguata analisi dei dati e delle reali condizioni dei mondi locali. Aziende occidentali stanno mettendo in pratica le loro strategie di profitto e promozione dei loro prodotti, spacciando il tutto per comunicazione e pratica libertaria.
Evitare questa “ingenuità della rete” come direbbe Morozov (cfr Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà in Internet, Codice Edizioni, Torino 2011) è il primo obiettivo di una pratica artistica che individui radici e rizomi, che sappia Interpretare, trasformare i fenomeni sociali in forme culturali ed estetiche, anche non necessariamente politiche (cfr David Levi Strauss, Politica della fotografia, Postmedia, Milano 2007).

L’artista con le sue pratiche e con questo ruolo, in un’area come quella del Mediterraneo, uno spazio di conflitti che separa e avvicina allo stesso tempo, può trovare lo spazio ideale per lavorare; appare necessario far interagire il contesto culturale degli studi post-coloniali con le operazioni artistiche in un approccio antropologico che metta in evidenza pratiche, abitudini, forme, strumenti, peculiarità sfidando dalla sua posizione le retoriche ancora in parte coloniali diffuse da una interpretazione occidentalizzante dei nuovi media.
Differenti i livelli e approcci, ma continua attenzione del mondo dell’arte su questo territorio. Ricordiamo i progetti recenti di Multiplicity, Amazae, Love difference; la Biennale dei Giovani artisti del Mediterraneo, il progetto Others del Museo Riso, Vessel e Transit al Madre, le mostre  The Medirerranean Approach, curata da Adelina von Fürstenberg a Venezia dal Mediterraneo, The sea is my land. Artisti dal Mediterraneo curata da Francesco Bonami ed Emanuela Mazzonis.

Ricordo però il lavoro di Zena el Khalil Beirut, I Love You – A Work in Progress presentato a Torino presso la Fondazione Merz nel 2012 uno straordinario esempio di esperienza artstica che nasce dal web, un blog aperto nel 2006 con i bombardamenti israeliani su Beirut vissuti in prima persona, diventa un libro e quindi un video documentario che racconta la drammatica storia di un’amica gravemente ammalata. Esperienza concreta, fisica che si racconta e rappresenta tra scrittura, informazione digitale, dramma visivo.
Dobbiamo essere consapevoli che la primavera araba ha una storia lunga, nata con corpi, linguaggi, sistemi di segni, spazi pubblici; persone oggetto di violenza e soggetti autori di violenze, occupazioni e violazioni, trasformazioni traumatiche; le pratiche artistiche possono servire in questo senso come ricerca e rielaborazione, indagine ed esercizio di consapevolezza complesso ed autentico, anche individuando in un peculiare senso estetico. Perché la realtà è una esperienza traumatica come direbbe Lacan (cfr. la lettura di Recalcati dell’estetica di Lacan http://www.lacan.com/symptom6_articles/recalcati-estetichedilacan.html) di cui non possiamo fare una radicale esperienza ma la cui parziale e sensibile esperienza ci è indispensabile proprio per rielaborarne autenticamente le tensioni. E’ questa tensione che dovrebbe cercare l’artista.

La residenzialità e lo scambio nella residenzialità degli artisti è un’altro aspetto metodologico utile, perché se ben condotto, innesca il confronto con una differenza culturale che richiede tempo ed immersione (cfr. Marco Aime, Cultura, Bolati Boringhieri, Milano, 2013). La residenza come pratica artistica è infatti una conquista relativamente recente, forse conseguenza stessa della globalizzazione del sistema dell’arte e del suo tentativo di agire su nicchie culturali non occidentali già dall’inizio degli anni Novanta.

Anche il progetto Routes/Strade. Artisti in residenza urbana temporanea, della Fondazione Teseco per l’Arte e del Comune di Pisa, ispirato dal libro di James Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, è stato un tentativo personale di sperimentare come  le pratiche dell’arte contemporanea potevano indagare la strada come luogo di connessione prima di tutto ma anche di confronto e conflitto. Il tutto nasceva da precedenti interventi sempre a Pisa sulle questioni delle arti sulle strade, zone di intersezioni ideali per l’individuazione delle cosiddette culture diasporiche (Miguel Mellino, La critica postcoloniale, Meltemi, Roma 2005) che sono sempre culture metaforicamente in viaggio che si alimentano di processi globali e locali. I risultati del progetto, che vide ospiti per una residenza una artista greca e una turca a Pisa, furono dei lavori specifici nati nella città poi esposti in una mostra.
Il progetto era arricchito da altri appuntamenti come un convegno, proiezioni ed eventi musicali finalizzati ad alimentare questo incontro. Per inaugurare quel progetto ci fu la conferenza illuminante di Chambers sulle “voci” del Mediterraneo.

Non si tratta quindi di pensare alle distese d’acqua, alla vastità del mare come immagine metaforica relativa alla tipologia di questa indagine sul Mediterraneo bensì alle rotte, ai percorsi che via terra o via mare intraprendono gli uomini; una pratica artistica rispettosa delle culture che si ibridano deve partire dalle strade questa volta liquide da percorrere e ripercorrere.

In questo senso l’artista si fa esploratore, critico, anche se non necessariamente un soggetto politico, bensì un sensibile antropologo culturale in cui il suo corpo e la sua sensibilità si pongono come una forma particolare di medium sociale, corpo sensibile e cognitivo o come direbbe Helmuth Plessner (cfr. Helmuth Plessner, Antropologia dei sensi, Cortina Raffaello Editore, Milano 2008), un antropologo dei sensi permeabile a questa complessità che è anche diversità; l’artista è fragile e forte allo stesso tempo, perché diviene membrana che si fa attraversare cercando; grazie alla sua dimensione eccentrica accentuata, ad una tensione verso l’esterno sensibile della propria soggettività che non si pone quindi come meramente individualistica. In questa condizione in cui siamo e abbiamo corpi, in cui vediamo e sentiamo, la rielaborazione artistica ed estetica può divenire una condizione di eccezione;

Il medium sociale digitale va sostituito con una operazione culturale con il medium sociale dell’artista. La sua azione si caratterizza nella metafora della musicalità, accordo e ascolto; capacità di connettere lontananze e diversità contemporaneamente, rimanendo aperta e liquida nella sintassi (cfr. Helmuth Plessner  il ruolo che egli assegna alla musica).
L’importanza della musica, questa volta come materiale di indagine nell’ambito degli studi culturali e post-coloniali, si trova nello stesso Chambers, già nel suo libro sul Mediterraneo e con maggiori approfondimenti in Mediterraneo Blues (cfr. Iain Chambers, Mediterraneo Blues, Bollati Boringhieri, Milano 2012). Non significa fare semplicemente musica ma utilizzare il campo semantico della produzione e della ricezione musicale per l’esperienza artistica.

Un invito quindi all’assunzione della medialità dell’artista e della residenzialità temporanea attraversando le strade e le radici delle culture; porsi come ricettori di sensazioni e produttori di cultura, di riflessioni e atti dopo aver individuato la complessità dell’esperienza; questa ricchezza trasforma  e restituisce le informazioni ai fatti.

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Stefano Coletto Si è laureato in Lettere nel Dipartimento di Storia e Critica delle Arti presso l’Univeristà Ca’ Foscari di Venezia. Ha insegnato Storia dell’Arte nella  Scuola Secondaria Superiore. Si è occupato inoltre di didattica dell’arte anche applicata ai nuovi media. Dal 2003 lavora come curatore presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia; dal 2005 al 2010 ha ideato e coordinato il progetto internazionale “Tomorrow now. Pratiche artistiche contemporanee nella cultura digitale”; ha partecipato e curato conferenze e progetti per istituzioni pubbliche e private su temi di antropologia ed estetica dei nuovi media; è stato assistente presso l’Università IUAV di Venezia, Laboratorio di Progettazione e Produzione delle Arti Visive, e, dal 2011, docente a contratto alla NABA, Biennio di Film e New Media. Dal 2009 è coordinatore delle attività della Fondazione Bevilacqua La Masa.