BURNING ARCHIVES
No lives were lost di Brigataes
a cura di Paola Bommarito

Brigataes, No Lives were Lost. Mostra a cura di Mario Codognato. MADRE Museo di arte Contemporanea Donna Regina, Napoli 2009. Courtesy ESproduzioni

“L’esistere non è semplicemente essere,
ma essere se stessi come alterità”
Jean-Luc Nancy1

.“L’esperienza è certo qualcosa che si fa da soli,
ma che non si può compiere pienamente
se non si riesce a sfuggire alla pura soggettività
o nella misura in cui altri possono,
non dico ripercorrerla con esattezza,
ma almeno incrociarla,
riattraversarla”
Michel Foucault2

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Nessuna vita è andata perduta! Recita a voce alta il titolo. E cercare di non perdere un’esistenza, evitare che una vita vada dimenticata, è quello che brigataes tenta di fare in No lives were lost. Ma da cosa nasce questo sentimento legato alla perdita? In effetti, è da sempre che brigataes s’interroga sulla posizione dell’artista e sul significato dell’arte nella contemporaneità. Che fine fa l’arte all’interno di una società dello spettacolo generalizzato? Esercita ormai soltanto quella magia della scomparsa di cui parlava Baudrillard? Siamo davvero a rischio di estinzione? È proprio partendo da questi quesiti che si afferma la scelta di utilizzare l’arte come strumento preferenziale d’indagine, di conservazione e rappresentazione di una vita.

Come afferma l’artista stesso “Queste vite può salvarle solo l’arte, che non distrugge ciò che accoglie ma crea oggetti d’affezione che cercano di vivere per sempre.” è in progetti concettuali come No lives were lost che l’artista guadagna sempre più una centralità, fino a divenire l’oggetto di un indagine documentaria.

Ma come si fa ad evitare che le esperienze accumulate in una vita vadano perdute nel percorso della nostra esistenza? La metodologia escogitata per farlo, la forza che alimenta questo progetto, è la conservazione virtuale di una vita attraverso la documentazione delle esperienze che altri hanno condiviso con l’artista, che si attua catalogando ricordi, raccogliendo testimonianze. Ne risultano un insieme di storie, presentate con tre videoproiezioni sincronizzate, che si trasformano così nella narrazione della vita stessa dell’artista. Ma quali sono le voci narranti che rilasciano queste testimonianze? Quanti sono ad essere chiamati in causa? Un numero non indifferente. Sono più di cento le persone invitate a raccontarci quell’angolo della loro vita che hanno condiviso con l’artista Aldo Elefante. Diversi gli amici e i parenti, come la madre dell’artista o il cugino Sergio. Molte le figure del mondo dell’arte, come i galleristi Alfonso Artiaco e Vera Vita Gioia, Dora Stiefelmeier e Mario Pieroni, i curatori Gigiotto del Vecchio, Laura Cherubini e Mario Codognato, gli artisti Cesare Pietroiusti, Matteo Fraterno e Bianco-Valente. Professionisti di ogni genere come l’architetto Renato Nicolini, la giornalista Donatella Cataldi e lo psichiatra Adolfo Ferraro. Una grande comunità chiamata a rilasciare la propria e personale visione della vita di Aldo Elefante, tutti invitati a saldare questa esistenza nella memoria.

Brigataes, No Lives were Lost. Video Testimonianze

Così come, attraverso la poesia, Edgar Lee Master fissava nel tempo le vite di Spoon River3, raccontando e dando voce alle esistenze dei singoli nella speranza che esse non andassero perdute, allo stesso modo in No lives were lost l’artista costruisce, attraverso le voci dei singoli, un sistema di fissaggio nel tempo. E così la semplice individualità di un artista si lega all’individualità di una psicologa, di un ingegnere e un avvocato, di uno psichiatra, un musicista o un medico, fino a comporre un quadro ben articolato dell’esistenza dell’artista.

“Questo lavoro mette a nudo una presunta individualità e la moltiplica” Ma possiamo parlare di un’unica individualità? E in che modo questa individualità riesce a moltiplicarsi? In No lives were lost si viene a creare uno spazio di relazioni in cui ogni racconto è inserito in una dimensione esperienziale comune. Ogni voce interpellata, attraverso il proprio essere, contribuisce a presentarci l’individualità dell’artista ogni volta con una differente sfaccettatura. È soltanto una l’identità ad essere indagata, ma questa individualità si modifica e moltiplica, assume un valore diverso e acquista una porzione in più ogni qual volta cambia la persona che la descrive o la ricorda. Si moltiplica nel momento in cui a questa individualità si aggiunge il racconto di un altro, si costruisce nello scorrere delle parole, in questo continuo confronto con le individualità altrui. A ogni testimonianza l’artista può dire “io esisto” solo in quanto sono in rapporto con l’esistenza degli altri e con l’alterità dell’esistenza. “E quindi vivo non una vita ma un succedersi di vite che corrono parallele, raramente sovrapponendosi. È il riconoscimento degli altri che mi fa esistere” è il riscoprirsi nelle loro parole che lo mantiene vivo nel tempo.

Ma fino a che punto l’io di un artista può essere condiviso? La condivisione della propria singolarità fra differenti è un modo per l’artista di prendersi cura di sé, un esercizio volto alla creazione di una forma d’esistenza mutevole, mobile, composta e che duri nel tempo. Lo scopo di questa cura è la produzione di un sé, che avviene attraverso una soggettivazione e che trova una possibile conciliazione nell’atto della documentazione. Una spinta alla catalogazione e all’analisi dovuta a un apprensione individuale della temporalità, del senso della finitezza temporale del sé e del proprio essere nel mondo. Un progetto, senz’altro, che ricorda il modo di operare di alcuni artisti negli anni 60-70, come il polacco Roman Opalka o il giapponese On Kawara. La registrazione documentaria del tempo presente in No lives were lost e la centralità che assume l’esistenza individuale nella produzione artistica, è una caratteristica costante di quel filone artistico chiamato Concettuale analitico dell’esistenza4. Il lavoro di On Kawara, impegnato per undici anni a inviare, ad alcuni conoscenti, cartoline dai luoghi dove lo portavano i suoi viaggi e a stilare un elenco di persone incontrate giorno dopo giorno, è un esempio di archiviazione continua del tempo individuale. Così come il lavoro di Opalka, in cui la registrazione dell’esperienza del tempo, legata alla numerazione, era associata a un’immagine fotografica che ritraeva l’artista alla fine di ogni seduta di lavoro sempre nella stessa posizione. La figura dell’artista e la documentazione del suo vissuto divenivano gli elementi cardine dell’opera. Allo stesso modo No lives were lost è un affascinante operazione concettuale di analisi del tempo e di conservazione dell’esistenza individuale, è la creazione di un processo che tende a far coincidere arte e vita. “L’arte serve ancora una volta a registrare e ad archiviare nel tempo” è quest’affermazione che palesa il senso documentario dell’opera, l’esigenza di assicurarsi attraverso l’archiviazione un ricordo perenne. Seguito dalla necessità di trovare un luogo che conservi questa memoria nel tempo, un archivio ufficiale che No lives were lost trova fra le pareti dell’associazione Zerynthia, perché è lì che sono stati depositati i dvd contenenti le testimonianze raccolte.

Ma alla fine, cosa ci troviamo davanti agli occhi? Quello che ne viene fuori è un ritratto da esperire con tutti i sensi, che segue le logiche di un’estetica dell’esistenza. Come una composizione musicale in polifonia vi sono più elementi che interagiscono. È una combinazione di più voci indipendenti, che scorrono simultaneamente nel corso della proiezione, mantenendosi differenti l’una dall’altra, pur essendo regolate da un principio comune: la costruzione della rappresentazione di una vita. “Ne viene fuori un ritratto multiplo che non è più auto ma etero.“5 È senza dubbio la costruzione di un autoritratto, perché è l’artista a dirigere l’orchestra, è lui che fa parlare di sé, lui che sta costruendosi una propria immagine. Ma allo stesso tempo è anche diversificato, ogni racconto è una differente tessera che cerca di trovare la sua giusta collocazione. Come afferma Walter Benjamin “Cosi come, in letteratura, la citazione chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge… anche il ritratto sposta la persona dal suo sfondo ordinario, la decontestualizza, per trarla innanzi in quanto figura.”6 No lives were lost nasce dalla volontà dell’artista di fissarsi eternamente, di rivivere in un ciclo continuo attraverso le parole degli altri. Ne risulta una complessa figura, un ritratto che contiene differenti citazioni, ognuna delle quali è figura di per sé. L’archivio di questa vita custodisce così innumerevoli figure, simili eppure mai identiche, che confluiscono nella costruzione di un’identità, unica eppure mai sola.

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1 Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa. Cronopio, Napoli 1995.
2 Michel Foucault, Conferenza dal titolo Che cos’è un autore? 1969.
3 Edgar Lee Master, Antologia di Spoon River, Newton Compton editori, Roma 2009.
4 Francesco Poli (a cura di), Arte Contemporanea, Electa, Milano 2005.
5 Si ringrazia Aldo Elefante per averci fornito il materiale descrittivo dell’opera No lives were lost.
6 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 2009.

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Brigataes è un nome collettivo utilizzato – dal 1995 – da un gruppo che è oggi rappresentato da un singolo artista: Aldo Elefante. Nel corso della sua attività ha realizzato video, azioni performative, installazioni ed interventi urbani. Brigataes si interroga, con ironia e gusto per il paradosso, sulla posizione dell’artista e sul significato dell’arte nella contemporaneità. Il nome Brigataes nasce dall’idea di confondere razionalità ed irrazionalità, caos e disciplina, oltre ad essere assonante con una sigla destabilizzante.