NURTURE o dell’educazione libertaria
Educazione e libertà? Che senso ha oggi porsi questa domanda
di Franca Zuccoli

Il movimento costante tra i due poli educazione e libertà è stato un moto che ha caratterizzato nei secoli il dibattito pedagogico e didattico di tantissimi autori. Alcuni pedagogisti si sono mostrati decisamente schierati a favore di un indottrinamento che garantisse la corretta crescita delle nuove generazioni, entro precisi binari, altri invece, si sono rivelati propensi a permettere che la natura personale e sociale di ogni essere umano potesse emergere e che la stessa educazione, intesa con caratteri completamente differenti dai primi pedagogisti menzionati, favorisse questo sbocciare e manifestarsi. Interrogarsi oggi su queste due polarità è un passo ancora imprescindibile, a volte tralasciato da altre necessità che sembrano più attuali e irrinunciabili. Invece è proprio questo pensiero che garantisce di domandarsi quale idea di bambino abbiamo oltre a quale idea di società odierna e futura riteniamo che le varie proposte possano permettere di realizzare. Non solo pedagogisti e didatti, ma soprattutto donne e uomini tutti che lavorano nella scuola e nei servizi, insegnanti, educatori, personale che a vario titolo opera all’interno di questi spazi e che avrebbe la necessità, ancora oggi, di fermarsi e di confrontarsi su alcune idee fondanti che permeano queste istituzioni e che le modellano in un senso o in un altro. Se osserviamo anche nelle pratiche d’insegnamento che cosa vuol dire da un punto di vista individuale e sociale compiere alcune scelte come: incentivare una discussione, intesa come costruzione collettiva della conoscenza (Pontecorvo, 1998), o ancora favorire esplorazioni di materiali e di luoghi (Munari, 1985; Restelli, 2002; Smith, 2011), oppure permettere che il corpo, anzi i corpi di bambini e di adulti, possano trovare spazio (Gamelli, 2011, 2012), o ancora aprire la scuola ai genitori e alla società o uscire dalla scuola con i bambini e i ragazzi, ci permette di comprendere come ogni nostra scelta compiuta anche nei risvolti più quotidiani abbia un’indubbia ripercussione individuale e sociale. Queste decisioni, alcune delle quali a un primo sguardo possono sembrare piccole, risultano invece strettamente connesse al tipo di educazione, al portato sociale che ogni azione e situazione didattica mobilita e mette in campo. Proprio per sondare queste così diverse potenzialità, per non fermarsi ai singoli casi, oltre che per lanciare uno sguardo oltre gli steccati disciplinari o di appartenenza, è interessante proporre o ritrovare almeno due letture che si vogliono proporre qui accostate quasi a titolo provocatorio: la prima quella di Frankestein educatore di Philippe Meirieu, posta accanto alla seconda, formata in realtà da due testi imprescindibili di Paulo Freire L’educazione come pratica della libertà e Pedagogia dell’autonomia. Dalle pagine del primo libro emerge la visione dell’educatore come fabbricatore, quel Victor Frankestein di Mary Shelley che costruisce pezzo di carne per pezzo un nuovo essere, dandogli vita e sperando di sconfiggere in tal modo la morte, per poi spaventarsi della potenza di ciò che ha di fronte e abbandonare la creatura consapevolmente al suo destino, quasi per volersi liberare da un incubo. Questa metafora serve a Meirieu per osservare differenti posizioni educative e scommettere sulla possibilità opposta, quella cioè di educare senza o quasi fabbricare. Si tratta di una strada diversa che non vuole costruire a partire da un’idea astratta l’essere umano, generato da valori e contenuti culturali predefiniti, ma che guarda e osserva attentamente chi ha di fronte nella sua specificità e cerca di accentuare l’autonomia di ogni persona, oltre che la sua realizzazione. L’educatore-fabbricatore ha una storia lontana, ci richiama: il Pigmalione di Ovidio (Metamorfosi, X, 243) con la statua realizzata dall’artista, talmente amata, a cui Afrodite, dietro le insistenti richieste dello scultore, concede la vita, oppure l’opera teatrale Pygmalion di George Bernard Shaw del 1912, dove Eliza Doolittle, fioraia popolana, viene educata per scommessa da Henry Higgins, esperto di fonetica, per diventare una raffinata donna della buona società o ancora lo stesso Effetto Pigmalione, sulla profezia che si autorealizza, dalla famosa ricerca di Robert Rosenthal e Lenore Jacbson (1971, 1992), laddove si provò che indicando agli insegnanti gli alunni dotati di grandi capacità intellettuali (dato che in realtà non corrispondeva al vero) si erano poi ottenuti nel tempo risultati eccellenti proprio da parte dei ragazzi segnalati, e infine anche la “predizione creatrice” o l’“autorealizzazione delle profezie” osservate in molte e ulteriori ricerche che hanno confermato come l’idea positiva o negativa sull’educando da parte dell’educatore riesca a incidere in modo fondamentale sul suo operato e sul conseguente apprendimento. Queste considerazioni ci portano a riflettere su quanta parte del processo educativo sia quella della fabbricazione, arrivando Meirieu ad affermare che: “[…] ogni educatore è sempre un po’ un Pigmalione che vuole dare vita a quello che “fabbrica” […] l’educatore vuole “fare l’altro”, ma vuole anche che l’altro sfugga al suo potere perché possa appunto, aderirvi liberamente.” (Meirieu, pp.39-40) Fin da subito l’autore osserva con attenzione il piccolo d’uomo appena nato, ponendo l’accento sulla sua totale dipendenza, molto diversa da quella delle innumerevoli specie viventi che troviamo sul pianeta: “Alla sua nascita non sa niente, o comunque pochissime cose: deve familiarizzare con una moltitudine di segni, accedere ad una lingua che viene detta “materna”, inserirsi in una data collettività, imparare a identificare e rispettare i riti, i costumi e i valori che gli vengono imposti e poi proposti da quelli che lo circondano.” (Meirieu, p.28) Il bambino per crescere ha bisogno allora di sostegni adulti, per Meirieu egli deve assorbire la storia della comunità in cui è collocato per costruirsi poi come membro della collettività umana: “Educare significa, dunque, introdurre in un universo culturale, un universo in cui gli uomini sono arrivati ad addomesticare un poco la passione e la morte, l’angoscia di fronte all’infinito, il terrore davanti alle proprie opere, il loro terribile bisogno e la loro immensa difficoltà di vivere insieme…” (Meirieu, p.28) Anche se a volte la determinazione educativa porta a centrarsi su quello che riteniamo sia il “loro” bene, senza neppure prendere in considerazione che cosa interessa ai bambini interpellandoli direttamente. Secondo l’autore, allora, la svolta radicale della pedagogia abbandonando la fabbricazione del soggetto, come pure l’opposta astensione pedagogica, in nome di un falso rispetto dell’alunno, può trovarsi solo nella relazione del soggetto con il mondo, a cui deve essere accompagnato e introdotto, ma certamente non plasmato. La stessa trasmissione dei saperi non può mai avvenire in modo meccanico, ma necessita di una sperimentazione diretta, di una ricostruzione e di una partecipazione consapevole, arrivando ad affermare che in fondo apprendere è fabbricare se stessi. “L’educatore può solo accettare il suo non potere, riconoscere che non ha alcun mezzo per agire sull’altro e al posto dell’altro e che qualunque tentativo in questa direzione lo farebbe ricadere dalla parte di Frankestein, ma che, nonostante tutto, non è impotente.” (Meirieu, pp.39-40) Questa riflessione su una presunta impotenza che il formatore ha sulla decisione necessariamente personale di imparare, registrata e accettata, porta a non confonderla con le condizioni che si possono attivare perché le cose accadano, quegli “spazi di sicurezza” in cui si prende il coraggio per fare le cose che non si sa fare, essendo consapevoli che è proprio nel corso dell’azione educativa che si può guadagnare l’autonomia. In questa prospettiva ricca e affascinante abbiamo visto giocarsi il rapporto tra educazione e libertà, con un punto di vista che però si focalizza su quello che Meirieu definisce un incontro “inevitabilmente singolare” (Meirieu, p.94) in cui l’attenzione è sul bambino e sull’educatore. Un rapporto certamente anche sociale, ma ancor prima e soprattutto diadico, che punta l’occhio proprio su quel preciso bambino, osservandone la crescita, le potenzialità, giocando tra libertà e costrizione. Un bambino che ha la necessità di essere accolto, di avere al suo fianco adulti che lo forgino, tracciando una strada o all’opposto gliela lascino scoprire con maggiore libertà permettendo di trovare il suo percorso individuale anche molto differente da quello in precedenza ipotizzato. Da questo rapporto singolare, da questo sguardo che è andato così nel profondo, dobbiamo però passare ora ad allargare l’orizzonte, a intendere l’educazione da un punto di vista completamente diverso: quello sociale e politico e per questo abbiamo bisogno di sentire la voce di Paulo Freire. Nel testo Pedagogia dell’autonomia egli ci ricorda che “insegnare esige di comprendere che educare è una forma di intervento sul mondo” (Freire, 2004, p.78) e questo cambia la prospettiva, non rimaniamo più solo nel seppure importantissimo progetto che coinvolge lo sviluppo di un essere o di più esseri umani, ma parliamo di una società tutta che può accogliere delle modificazioni proprio a partire da un’azione educativa consapevole. Questa può così riprendere in mano la filiera dell’intervento pedagogico-didattico, troppo spesso spezzettato tra un apparato centrale con un preciso progetto filosofico e politico a lunga gittata, frammentato poi nei mille rivoli dell’azione quotidiana che diventa lavoro nelle mani di operatori, a volte però poco consapevoli dell’intero disegno. Un pensiero consapevole su questi passaggi permette di riprendere quello sguardo complessivo sul proprio operato come insegnanti ed educatori, che così può forse restituire l’interezza di un atto. Anche se il pedagogista fin da subito sgombra il campo da illusioni troppo potenti, dichiarando di non ipotizzare soluzioni miracolose, poiché l’educazione da sola non potrebbe muovere nessuno dei cambiamenti seppure necessari nella società, ma può comunque agire solo se tiene conto di alcuni aspetti: “Non possiamo però negare all’educazione la sua forza strumentale, che sarà nulla se l’educazione non terrà conto delle condizioni del contesto in cui viene applicata.” (Freire, 1977, p.108) Nell’impianto di Freire lo sguardo si fa ampio, e così l’educazione riprende la sua possibilità di azione e di scelta in cui l’educatore e l’educando si scambiano costantemente i ruoli. “Chi insegna, nell’atto di insegnare apprende, e chi apprende nell’atto di farlo, insegna.” (Freire, 2004, p.21) Arrivando a ritrovarsi in quanto avevamo visto prima scritto nel testo di Philippe Meirieu e cioè che: “sapere che insegnare non è trasferire conoscenza, ma creare le possibilità per la sua produzione o la sua costruzione.” (Freire, 2004, p.39) Ritornando, però, all’interno di un portato politico e sociale a valorizzare la capacità di elaborazione della conoscenza. Con una prospettiva sempre più ampia proiettata non solo verso la trasmissione di contenuti già codificati, ma soprattutto verso la creazione di nuovi saperi. “Da qui l’importanza fondamentale di conoscere il sapere esistente e al tempo stesso di sapere che siamo aperti e in grado di elaborare la conoscenza che ancora non esiste. Insegnare, apprendere e ricercare hanno a che fare con questi due momenti del ciclo gnoseologico: quello in cui si insegna e si apprende la conoscenza già esistente, e quello in cui si lavora all’elaborazione della conoscenza che non esiste.” (Freire, 2004, p.25)

È forse tenendo insieme queste due prospettive, quella singolare e sociale, come pure quella individuale e politica, forniteci dagli autori presentati, ma assumendo anche come costante il movimento tra autonomia e costrizione, tra trasmissione e costruzione creativa, che si può sostare maggiormente sulla tematica dell’educazione e della libertà, senza pensare di risolverla in modo dogmatico e definitivo, ma progettando singole azioni e percorsi che mantengano almeno alcuni dei concetti e contenuti prospettati nei testi di Meirieu e Freire, ispirandosi grazie a loro e innovando creativamente il proprio lavoro. Forse proprio qui possiamo trovare una possibilità che lavorando con un doppio punto di vista, senza dimenticare l’individualità e non oscurando il progetto sociale, può riuscire a ricomporre una prospettiva globale.

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Bibliografia

Freire P. (1977), L’educazione come pratica della libertà (Educação como prática da liberdade, 1973), Oscar Mondadori, Milano.
Freire P. (2004), Pedagogia dell’autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa (Pedagogia da autonomia. Saberes necessários à prática educativa, 1996), Ega editore, Torino.
Pontecorvo C., Ajello A. M., Zucchermaglio C. (1998), Discutendo si impara: interazione sociale e conoscenza a scuola, Carocci, Roma.
Gamelli I. (2012), Ma di che corpo parliamo? I saperi incorporati nell’educazione e nella cura, Franco Angeli, Milano.
Gamelli I. (2011), Pedagogia del corpo, Raffaello Cortina, Milano.
Meirieu P. (2007), Frankenstein educatore (Frankenstein pédagogue, 1996), Spaggiari, Parma.
Munari B. (1985), I laboratori tattili, Corraini, Mantova.
Ovidius Naso P. (2005), Metamorfosi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano.
Restelli B. (2002), Giocare con tatto: per una educazione plurisensoriale secondo il metodo Bruno Munari, Franco Angeli, Milano.
Rosenthal R., Jacobson L. (1992), Pygmalion in the classroom, Expanded edition, New York, Irvington.
Shelley Wollstonecraft M. (2000), Frankestein o il moderno prometeo (Frankenstein; or, the modern Prometheus, 1818), Tascabili La Spiga, Ancona.
Smith K. (2011), Come diventare esploratore del mondo: un museo di vita tascabile (How to be an explorer of the world, 2008), Corraini, Mantova.

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Franca Zuccoli, ricercatrice presso l’Università di Milano Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, è docente di Didattica generale e di Educazione all’immagine.
È stata coordinatrice della sezione didattica della Fondazione Arnaldo Pomodoro e attualmente collabora con la stessa istituzione e con altre strutture museali come il Triennale Design Museum, svolgendo ricerche nazionali e internazionali. Per le Edizioni Junior-Spaggiar ha pubblicato nel 2010 il libro Dalle tasche dei bambini… Gli oggetti, le storie, la didattica e nel 2014 Didattica tra scuola e museo. Antiche e nuove forme del sapere.