NURTURE o dell’educazione libertaria
Una conversazione con Roberto Maragliano sulle relazioni tra educazione, comunicazione e arte
a cura di Cecilia Guida

Cecilia Guida: Sei stato tra i primi a occuparti delle problematiche legate alla multimedialità, all’uso educativo delle tecnologie e dei diversi linguaggi comunicativi, fondando nel 1990 il Laboratorio di Tecnologie Audiovisive dell’Università Roma Tre. Che cosa intendi con l’espressione “Tecnologie Audiovisive”? Quali attività vengono sviluppate all’interno del Laboratorio?

Roberto Maragliano: All’origine di questa esperienza c’è qualcosa di personale, come sempre avviene in queste cose, e cioè, nel caso, la confluenza, maturata tra la fine della mia vicenda di studente universitario e l’inizio dell’esperienza di ricercatore e docente, di differenti interessi: l’epistemologia genetica di matrice piagetiana, l’azione politica intesa come chiave di volta del cambiamento sociale, le prospettive aperte alla didattica dalla revisione degli strumenti e dei modelli d’uso.

Interagendo tra di loro, queste istanze hanno dato vita ad un atteggiamento e una pratica caratterizzate da curiosità multi-disciplinare (addirittura a-disciplinare), eterogeneità metodologica e perplessità nei confronti di ogni ontologia fondativa (in campo pedagogico, ahimè, sai quante ce ne sono!).

Quando, dopo un giro nelle università nazionali (allora usava, e a me toccarono Sassari, Firenze e Lecce), tornai a Roma, nell’area della Sapienza destinata a diventare Roma Tre, feci in modo di concretizzare questo orientamento dando vita al Laboratorio di Tecnologie Audiovisive, e attornandomi lì di poche figure mirate, necessariamente “eterogenee” e comunque poco “disciplinate”, accademicamente parlando.

Assieme abbiamo dato corpo ad un pensiero e a una pratica di ricerca, formazione e produzione che trovano il loro centro in questa idea: che la didattica possa essere intesa come la forma che i saperi assumono quando diventano oggetto di insegnamento e apprendimento. Come dire che non avrebbe senso, per noi, parlare di media se questi non dovessero “mordere” saperi e aiutare la scuola e l’università a ripensarsi.

Mi chiedi la ragione di questa titolazione del Laboratorio, anomala oggi ma ancor più al tempo della sua nascita, quando gli audiovisivi (i famosi e famigerati “sussidi audiovisivi”) avevano del tutto esaurito la loro carica innovativa, ammesso che l’abbiano avuta. Il senso che diamo all’espressione, come emerge anche da tutto quel che abbiamo fatto in questi anni (con un impegno tra il professionale e l’artigianale sui terreni della stampa, della registrazione video e audio, della costruzione e dell’uso di strumentazioni digitali), riflette l’esigenza di ridefinire la forma e l’oggetto stesso della formazione alla luce della mutazione che il digitale e la rete stanno producendo nei regimi dell’esperire e del comunicare. Ci sembra infatti che il cambiamento in atto sia di tipo paradigmatico e induca a mettere il visivo (o “visuale”, alla francese), l’auditivo e il tattile dentro uno stesso spazio di codificazione, organizzazione e auto-riflessione del sapere fin qui presieduto dal verbale/scrittorio.

Del quadro teorico di riferimento che sostiene questa scelta abbiamo dato conto, con Mario Pireddu, nel nostro Storia e pedagogia nei media, l’e-book che abbiamo riproposto, dopo una prima versione editoriale di tipo sperimentale, in self publishing (http://www.ultimabooks.it/storia-e-pedagogia-nei-media, e in tutte le librerie digitali). In sintesi, stiamo procedendo nella direzione di interpretare i media alla stregua di infrastrutture materiali, sociali e individuali, cioè come luoghi dove risiedono e agiscono le condizioni costitutive dell’esperire, e dunque del conoscere e dell’agire collettivo e individuale. Personalmente, nel Pantheon con cui provvedere a ridefinire i modi dell’agire educativo sono andato via via collocando figure “anomale”, di frontiera, che mal sopportano le classificazioni disciplinari: in questa sorta di “accademia degli schizzati” Marshall McLuhan sta vicino a Norbert Elias, Philippe Ariès a Rudolf Arnheim, Ivan Illich a Edgar Morin.

Ecco allora che nel digitale e nella rete, intese come componenti dell’infrastruttura tendenzialmente dominante, oggi, vedo venire alla luce forme e pratiche di sapere che se all’inizio potevano essere intese come ricalchi di quelle appartenenti alle infrastrutture precedenti (la stampa ma anche i mezzi della comunicazione audio-visuale) oggi appaiono sostanzialmente diverse. Non dissimili da quelle anticipate dalle avanguardie artistiche e scientifiche della prima metà del secolo scorso, ma decisamente difformi rispetto alle forme che, tramite il lungo periodo di egemonia quasi esclusivizzante della stampa (solo parzialmente scalfito dai mass media audio-visuali del Novecento), hanno dato senso e sostanza a buona parte all’esperienza moderna di scuola (università inclusa).

Insomma, saremmo in presenza di un cambiamento radicale di sensibilità, non ancora sostenuto da adeguata consapevolezza ed anzi ignorato o addirittura osteggiato da una pedagogia spontanea (ma anche accademica) di matrice ottocentesca, che è poi quella cui i più continuano a fare riferimento. Ma è un cambiamento reale, che tocchiamo con mano ogni giorno, soprattutto se andiamo al di là della superficie dei fenomeni (e usciamo da scuola!). Ecco allora che il discorso torna ad essere ad un tempo tecnologico, epistemologico e politico. Ed è sì un discorso di ricerca, ma anche e soprattutto di militanza, dentro uno spazio, quello attuale, almeno nel nostro Paese, dove la svalutazione del digitale e della rete sembra essere uno degli elementi basici dell’ideologia dominante, uno dei vezzi attraverso cui il conformismo dell’intellettuale si maschera dell’illusoria vocazione a procedere controcorrente.

Per tutto ciò rimando comunque al nostro blog: http://LTAonline.wordpress.com, che documenta gli argomenti e gli strumenti di questa quotidiana “battaglia delle idee”, sul modo di concepire tecnologia e scuola (università inclusa).

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CG: In un tuo interessante testo dal titolo “Vuoi mettere?! Cose che l’insegnamento in presenza non può fare” fai un’attenta analisi dei pregiudizi, delle banalità e delle accuse tipiche del discorso ideologico dominante verso l’insegnamento e l’apprendimento di Rete, mettendo a confronto critico sia la mentalità a-mediale con quella pluri-mediale sia il libro con il computer. Sostieni che la tecnologia fornisce un “ambiente mediatico” alla didattica ed è con quest’ambiente che la didattica deve saper interagire, in che modo i processi di produzione e di acquisizione di conoscenza possono mutare a livello di elaborazione teorica e di attuazione pratica con l’uso delle tecnologie digitali?

RM: Le questioni che il passaggio del (o al) digitale solleva sono molte e andrebbero tutte trattate all’altezza dei rilevanti problemi filosofici che ne sono coinvolti: la configurazione di un sapere multimedia e multicodice, il rapporto di reciproca determinazione di apprendimento e insegnamento, il quantum di realismo e di immaginario che c’è in ogni esperienza, la dialettica tra individuo e gruppo nella costruzione del sapere. Tutti interrogativi ai quali sarebbe opportuno iniziare a dare risposte.

Al centro di questo territorio ci sono, però, due grossi “vuoti”, che inutilmente si tenta di colmare o pudicamente nascondere ricorrendo a vieti luoghi comuni su ciò che significherebbe e sarebbe di per sé l’esperienza educativa: corrispondono per un verso alla carenza di concetti capaci di definire gli oggetti dell’apprendere, e per un altro all’assenza di una pedagogia autenticamente multimediale e reticolare. Quella di cui invece disponiamo è di una teoria dell’insegnare coerente con l’ordinamento tipografico, dove i saperi si presentano dotati di precisi confini e ben definite articolazioni interne, e dove le logiche della sequenzialità e dell’impegno individuale governano (tramite libro e lettura) il travaso delle conoscenze. Qui stanno, appunto, i due “vuoti” di cui ho detto, nella scelta caparbia di chiudere gli occhi su altre forme e altre vie di sapere.

Ecco allora che i “vuoi mettere?” sono due, non è uno solo.

C’è il “vuoi mettere?” di ciò che si intende doveroso far apprendere, che equivale a rifiutarsi di confrontare il verbale/scrittorio con ogni altra modalità di produzione/codificazione di sapere. Soluzione accettabile, questa, fino a che la scrittura ha potuto conservarsi come unico codice tecnologicamente riproducibile e capace di darsi una funzione metalinguistica. Ma queste prerogative il digitale le ha rapidamente estese agli altri codici: sembrerà cosa aberrante, ma la tecnologia odierna consente a chiunque ne sia utente esperto di far maturare, attraverso la manipolazione dei dati, esperienze meta-cognitive di una certa importanza anche evitando di far ricorso al verbale, ma semplicemente agendo sui suoni o le immagini o pure operando col tatto. Dunque, qualunque videogiocatore minimamente esperto potrebbe ribaltare sull’altro il “vuoi mettere?” che questi gli rivolge. Analogo discorso si potrebbe proporre a proposito delle dinamiche della rete, una volta che si provasse ad assumerle come ambito entro il quale sperimentare nuovi regimi di apprendimento. Sarà pur vero che nessuna esperienza di rete renderà il pieno della presenza, ma è altrettanto vero che il pieno della presenza, almeno per come continuiamo a praticarla, si gioca prevalentemente se non esclusivamente su un rapporto uno a molti con un totale sacrifico del rapporto molti a molti: una pratica che invece la dinamica di rete, con i social soprattutto, promuove e valorizza, garantendo così che l’esperienza di apprendimento, come ho già accennato, sia non più isolata e isolante ma condivisa. Dunque, un altro ribaltamento del “vuoi mettere?”.

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CG: A proposito del rapporto tra ambiente comunicativo e tecnologia, mi viene in mente il famoso esperimento del professor Sugata Mitra, “Hole in the Wall” (1999), che dimostra che, installando un pc connesso a Internet in un muro di uno dei tanti villaggi di Nuova Delhi, i bambini che non avevano mai visto un pc in vita loro imparano da soli come usarlo, giocare, navigare per poi insegnarlo ai loro coetanei. L’esperimento dimostra che anche senza un input diretto di un docente, un ambiente che stimola la curiosità può indurre l’apprendimento attraverso l’auto-organizzazione, la responsabilizzazione e la conoscenza condivisa, tu cosa ne pensi?

RM: Penso che dobbiamo darci il coraggio di tentare nuove concettualizzazioni e nuove metodologie per dar conto di un mondo che cambia, anzi ch’è già cambiato. Con le vecchie andiamo poco lontano, resteremo sempre indietro. Forse è in questo senso a suo modo positivo che quel “pazzo” di Illich parlava di una società descolarizzante (università inclusa).

Foto dall’archivio del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive (1990- ) e di UNIDEE (2015- )

CG: Se provo a ricordare le lezioni di educazione artistica e musicale quando frequentavo la scuola media, mi ritornano alla mente la fatica per creare dei timidi acquerelli su carta (non so disegnare) e la difficoltà nell’eseguire brani di gruppo con il flauto di plastica (sono stonata). Una pedagogia alquanto demodé per la formazione di possibili futuri produttori e fruitori culturali non trovi?

RM: Torno a quanto ho sfiorato sopra. Il lascito migliore e universalmente conosciuto della nostra tradizione culturale appartiene alle aree del visivo, del sonoro, del tattile.

Questo l’ha espresso molto bene il pianista pop Lang Lang, in un’intervista che m’è capitato altre volte di citare: “[Il mio rapporto con la cultura italiana] è fondamentale, essenziale: i miei due musicisti favoriti sono Scarlatti e Verdi. E non è solo la musica che mi spinge a tornare il più spesso possibile a Roma, Firenze, Venezia. Le più importanti opere d’arte del patrimonio dell’umanità sono concentrate lì. Non dimenticherò mai il mio primo ingresso nella Cappella Sistina, le vertigini, la meraviglia: come può un essere umano fare cose simili? C’è un filo conduttore che unisce il vostro Rinascimento, poi i vostri geni musicali dell’Ottocento, con l’estetica italiana contemporanea, dal design alla moda, alla qualità maniacale del vostro know how gastronomico” (https://ltaonline.wordpress.com/2014/06/30/lang-lang-il-dionisiaco-a-viale-trastevere).

Sarò un illuso, ma ho fiducia nel fatto che alla lunga il digitale e la rete ci aiuteranno a uscire dalla bolla ottocentesca dei contenuti dell’insegnamento di questa scuola (università compresa) e da quella cinquecentesca dei modi dell’insegnamento di questa scuola (università compresa). In caso contrario, avrà avuto ragione la lettura più cruda della tesi di Illich.

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CG: Nel disegnare e sviluppare il progetto di UNIDEE-Università delle Idee di Cittadellarte/ Fondazione Pistoletto (vedi il sito www.cittadellarte.it/unidee) ho tenuto a mente quelle che sono le attività tipiche di un apprendimento di Rete più che quelle di un apprendimento in presenza: la comunità e l’interazione di tutti con tutti, l’esperienza di formazione in uno stesso ambiente e l’ascolto reciproco tra partecipanti (docenti e studenti). UNIDEE pone l’arte (le sue pratiche, metodologie, strumenti e linguaggi) al centro del processo di crescita dell’individuo ed è fondata sull’interdisciplinarietà, sulla relazione dinamica tra ricerca e pratica e sulla condivisione e scambio dei saperi. Con il progetto artistico di UNIDEE ho fatto nello stesso tempo un” esercizio” di immaginazione e un tentativo di “intervento”: con il primo sono tornata a essere studente e ho messo su la scuola che avrei voluto frequentare combinando il ruolo di studente/ professore, con il secondo ho provato ad agire sui limiti delle istituzioni educative pubbliche creando sinergie con i loro docenti e percorsi formativi. Com’è l’università che avresti voluto frequentare?

RM: Alla tua domanda rispondo ad un tempo come studente e come docente. E questa è già la risposta, perché l’università che mi piacerebbe frequentare è quella in cui il sapere e le esperienze sono materia di condivisione e non di trasmissione. Belle parole, ma che spesso restano tali, almeno finché si ha come riferimento un’istituzione, parlo dell’università italiana, che avendo platealmente fallito l’appuntamento con la formazione di massa, soprattutto nell’ambito umanistico, sta sempre più conformandosi al modello di Apparato Burocratico di Stato, dove su tutto, sia in ambito di didattica sia in ambito di ricerca, prevale la logica dell’adempimento. Questa, evidentemente è l’università che non voglio più frequentare (fortunatamente non posso più farlo, visto che fra un anno vado in pensione!), quella che, per restare nel mio settore, ha platealmente toppato uno dei più generosi obiettivi che s’era voluta dare nel corso dei Magnifici Trenta (gli anni della crescita), vale a dire la formazione completa dei docenti della scuola. E allora, mi piacerebbe prendere parte ad un’esperienza simile a quella di cui ti stai occupando, dove, appunto, lo stare assieme, il condividere, lo scambiare, il costruire esperienza in modo collaborativo producano piacere e desiderio di non smettere, dove i tempi della crescita siano contingentati esclusivamente dal proprio interesse e dalla propria partecipazione, dove la soddisfazione venga soprattutto da quel che si fa e non dal riconoscimento formale che si riceva per aver assolto ad un adempimento. Insomma, lo so, questo è un sogno, anzi sono due: mi piacerebbe frequentare un’università in cui il titolo di studio non avesse valore legale (dove dunque si va e si sta per imparare qualcosa che interessa); mi piacerebbe frequentare un’università italiana (non necessariamente situata nel territorio Italia) che si uniformasse allo spirito così ben delineato da Lang Lang nel frammento che ho riportato prima. Mi consola il fatto di aver tentato in un qualche modo di creare, pur all’interno dell’ABS, qualche isola in cui apprendimento e insegnamento fossero governati dal piacere e dalla soddisfazione di operare assieme, e dove fosse possibile recuperare quanto di meglio (come tu dici) ci sta dando la rete con i social network. L’esperienza, recentissima, del TeacherDojo Roma (https://teacherdojoroma.wordpress.com/), alla Piazza Telematica e con l’impegno di parte del gruppo del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive, seguita da docenti e studenti con adeguato spirito ludico (come documentano le foto), va, io credo, in questa direzione.

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Roberto Maragliano (1946) è professore ordinario all’Università Roma Tre. Insegna “Tecnologie per la Formazione degli Adulti e “Comunicazione di Rete per l’Apprendimento” presso il Dipartimento di Scienze della Formazione. Lì è responsabile del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive (http://LTAonline.wordpress.com) mentre, a livello di Ateneo, è responsabile scientifico della Piazza Telematica (http://host.uniroma3.it/laboratori/piazzatelematica/). Si occupa di teoria e pratica della multimedialità in campo educativo e di formazione di rete. Ha preso parte a numerose attività di ricerca e formazione in ambito nazionale e internazionale, sui diversi aspetti delle problematiche tecnologiche e didattiche, e con azioni rivolte ad utenze universitarie, postuniversitarie e adulte. È stato membro di gruppi di lavoro MiUR su temi come: i saperi scolastici, le università telematiche, l’e-learning, la formazione permanente, le tecnologie digitali nella scuola. Tra le sue pubblicazioni, per Laterza: La scuola dei tre no, 2003; Pedagogie dell’e-learning, 2004 (cura); Nuovo manuale di didattica multimediale, 2004 (terza versione). I suoi titoli più recenti in forma di libro: Didattica e comunicazione di rete, Stripes, 2007 (con I. Margapoti, O. Martini, M. Pireddu); Immaginare l’infanzia (cura), Anicia, 2007; Parlare le immagini. Punti di vista, Apogeo, 2008; Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media (cura con A. Abruzzese), Mondadori Università, 2008; Digital collaboration: some issues about teachers’ functions (cura con T. Leo – F. Falcinelli – P. Ghislandi), Scriptaweb, 2009. In versione ebook; Immobile scuola. Alcune osservazioni per una discussione, CastelloVolante, 2011; Pedagogia della morte, Doppiozero, 2012; Adottare l’e-learning a scuola, Maragliano publishing, 2013; Storia e pedagogia nei media (con Mario Pireddu), Maragliano e Pireddu publishing, 2014.

Cecilia Guida (1978) è direttrice del programma, UNIDEE – Università delle Idee di Cittadellarte/ Fondazione Pistoletto di Biella. Dottore in Comunicazione e Nuove Tecnologie dell’Arte (Università IULM di Milano, 2011), si occupa delle relazioni tra pratiche artistiche partecipative, nuove tecnologie e spazio pubblico contemporaneo. Docente di Analisi dei Processi Comunicativi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ha insegnato all’Accademia di Belle Arti (L’Aquila, 2011-2014; Roma, 2004-2007), allo IUAV (Venezia/Treviso, 2008-2009) e a La Sapienza (Roma, 2004-2007). Membro dell’IKT – International Association of Curators of Contemporary Art, Cecilia ha curato mostre in musei, spazi pubblici e non profit in Italia e all’estero (“ARTInRETI. Pratiche artistiche e trasformazione urbana in Piemonte”, Cittadellarte, 2012 e 2013; “Take Your Time”, Tank Space for Performing and Visual Arts, New York, 2009; “Fuori contesto”, spazi pubblici a Bologna, Milan, Trento/Rovereto/Bolzano, 2008; “Menu”, Spaziorazmataz Prato, 2007; “Aprés le diner sur l’herbe”, Villa dei Quintili, Roma, 2007 etc.). È autrice del libro Spatial Practices. Funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti pubblicato da Franco Angeli nel 2012, ed è curatrice e traduttrice dell’edizione italiana di Inferni Artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa (Artificial Hells. Participatory art and the politics of spectatorship) di Claire Bishop, edito da lucasossella editore, 2015.