Discomfort
L’affermarsi di una sempre contemporanea architetturaBrunelleschi, Walter Gropius e la Bauhaus in Giulio Carlo Argan
di Rossana Macaluso

Come quasi sempre accade all’inizio di un grande rivolgimento artistico,
le idee nuove si presentano come fredda e obiettiva razionalità
e le vecchie si diffondono avvolgendosi nel vago alone della poesia.
G. C. Argan

 

 

1955 e 1951. Sono molti gli anni che ci separano da queste date, ma non se si parla di nuovo gusto e di moderne architetture. Nel 1955 lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan dedica un saggio all’architetto Filippo Brunelleschi. Il titolo secco “Brunelleschi” sembra racchiudere quanto di più sovrapponibile alla nascita di quella che viene definita rivoluzione prospettica dall’orgoglioso “occidente”. Un nome e un’epoca, un’epoca e uno stile. Può inizialmente stupire che appena qualche anno prima, Argan, abbia dedicato un altro saggio ad un altro architetto, sempre di matrice razionalista, Walter Gropius. Per il titolo, lo storico sceglie “Walter Gropius e la Bauhaus”. Se la critica si divide su come interpretare l’articolo “la”, è chiaro per Marco Biraghi, curatore del volume, che la scelta di Argan ricada su quanto di più semplice esso suggerisca: la scuola del Bauhaus.
Agli occhi del lettore, il moderno Brunelleschi (ovvero classico), e il contemporaneo Walter Gropius (ovvero moderno), sembrano allinearsi su uno stesso piano, quello dell’agire umano come agire sociale, dell’azione che ha dietro una rivoluzione, non accettata, ma osteggiata, complicata, e alla fine trionfante. Nei due saggi, la scientificità dei dati riferiti ai due architetti si alterna ad una lettura critica che quasi distrae dall’oggetto trattato, caratteristica dell’Opera di Argan che allo stesso tempo la rende estremamente interessante.

Agli inizi di un’epoca che definisce l’arte come invenzione, Filippo Brunelleschi appare come il grande inventore: colui che apre all’arte una nuova dimensione dello spazio, la prospettiva, ma anche una nuova dimensione del tempo, la storia. (Argan, 1955: 7)

Leggere il saggio su Filippo Brunelleschi oggi solleva il problema di posizionare l’Umanesimo quale epicentro di un sistema culturale sul quale si regge gran parte dell’immaginario turistico italiano, in Italia e all’estero. Il legame tra Umanesimo e mondo Classico, oggi sugella il trionfo del patrimonio artistico italiano antico e classicheggiante a discapito di un sistema culturale contemporaneo, in parte istituzionalmente trascurato e in tanti casi poco recepito dal vasto pubblico. Nel trattato “L’ingresso dello stile ideale classicheggiante nella pittura del primo Rinascimento”, Aby Warburg spiega in maniera risoluta il rapporto tra Rinascimento e mondo Classico attraverso il paragone tra la Battaglia di Costantinodella scuola di Raffaello e l’Arco di Costantino2. In particolare, quest’ultimo, costruito per celebrare Costantino vittorioso su Massenzio, è rivestito da sculture per la maggior parte ricavate “di spoglio” da altri monumenti romani, quasi tutti a loro volta celebrativi di precedenti trionfi imperiali.

In un primo momento la riprova di questo rapporto non sembra costituire un problema molto difficile. Siamo anche troppo abituati a considerare gli artisti anticheggianti del maturo rinascimento (che conoscevano l’antichità) come sicuri archeologi, pei quali si trattava semplicemente di presentare l’imperatore così come lo descrive il suo arco di trionfo, cosa che dava all’artista un piacevole senso di esattezza archeologica e storica. Giacché a quell’epoca non si sapeva ancora che una parte dei bassorilievi non proveniva dall’epoca di Costantino e si riferiva probabilmente invece a battaglie dell’imperatore Traiano. (Warburg, 1966: 286)

Con queste parole, Warburg, tenta di scardinare il pensiero ormai consolidato nella cultura occidentale che stabilisce una linea evoluzionistica tra i vari stili, precisamente il susseguirsi di gusti come semplice passaggio logico dato per successioni, distanze e richiami. Con la sua Opera, realizza il più grande lavoro fatto sullo stereotipo di tale linea evoluzionistica a partire dalla sovversione dell’immaginario dell’artista rinascimentale quale archeologo e scopritore. Il geniale inventore di una nuova scienza delle immagini, che parlano, narrano e tramandano, quale fu Warburg, sancisce l’importante idea che l’arte non copia (o evita) precedenti stili, ma semplicemente permette il ritorno di determinate formule di pathos. L’esigenza di avvicinarsi ad un determinato tipo di tradizione (quale contenitore di pathos) è un elemento costante nei due saggi di Carlo Giulio Argan. Brunelleschi, insieme all’amico Donatello, compie numerosi viaggi a Roma per studiare le opere classiche legandosi a quella tradizione in maniera forte, ma allo stesso tempo innovandola, piegando l’antica tecnica alle proprie esigenze costruttive come nel caso della Cupola di Santa Maria del Fiore. La stessa riflessione sull’utilità della tradizione, è riferita a Walter Gropius, per il quale è forte il richiamo all’artigianato sia nel campo della didattica sia della progettazione (campi assolutamente sovrapponibili).

Artigianato nel cui assiduo fare si è per secoli espressa l’idealità religiosa tedesca e di qui l’appello all’industria, che può essere salvezza o perdizione, mezzo di una piena coesione o di una completa disgregazione sociale, ma sarà salvezza se saprà donare la bruta materialità della macchina e ricollegarsi a quell’antica idealità da cui trae la sua origine storica e la sua giustificazione morale, assordire la tradizione artigiana e svilupparla in una società illimitata, dove non esistono più ceti diversi ma soltanto diverse funzioni. (Argan, 2010: 27)

I due saggi presi in esame sottolineano come dietro l’affermarsi di un preciso stile, quindi rappresentazione di un mondo, vi sia l’azione umana, da analizzare, criticare, sviscerare in ogni suo minuzioso dettaglio. E’ quello che succede con Filippo Brunelleschi, irascibile e geniale figura cardine del Rinascimento italiano, è quello che fa Walter Gropius, politico senza far la politica, rivoluzionario senza fare la rivoluzione, innovatore senza l’abbandono della tradizione. I saggi diventano un viaggio in due epoche distinte e separate, ma che Argan rende tangibili perché tangibile è il loro operato nel mondo della creatività.
Allo stesso modo, Giulio Carlo Argan ci mette in guardia sul problema dell’affermazione del gusto sempre contemporaneo in relazione alla sua epoca, e soprattutto il passaggio da uno stile a un altro, tema spinoso e molto difficile da districare.

Non è difficile immaginare quali fossero, in quegli anni, i pensieri di Brunelleschi. Il tempo delle grandi imprese costruttive, che nella seconda metà del Duecento, aveva accompagnato il rifiorire delle libertà comunali, era finito da un pezzo. La grande opera del Trecento era stata il Campanile di Giotto; ma proprio quella aveva aperto la strada a un’architettura essenzialmente pittorica, tutta d’ornato (si pensi a orsammichele), non meno preziosa e raffinata, ma non più “costruttiva”, che la pittura degli ultimi decenni del secolo. Per apprezzare il perfetto richiamo di una veduta che mette in valore la simmetria e la proporzione delle parti, il Brunelleschi implicitamente afferma che il valore di un’architettura non sta nella finezza e nella varietà degli ornamenti ma nella chiarezza distributiva della struttura. (19)

La grande rivoluzione rinascimentale, che prevede una ricostruzione scientifica della realtà attraverso la sua rappresentazione prospettica, non investe massicciamente il mondo della creatività quattrocentesca, ma si fa strada attraverso piccoli passi e grandi polemiche. Come sostiene lo storico dell’arte, l’operato di un singolo è in grado di apportare cambiamenti radicali ed epocali. In un susseguirsi di tesi, quella di un Brunelleschi, visionario e avanguardistico, e di antitesi, costituita indubbiamente dal costante rivale Lorenzo Ghiberti, la sintesi sta nell’inevitabile nuova visione del mondo che non può non tener conto della distanza ormai chiara dal Trecento, dall’esigenza di nuove tecniche e superamento di determinati assunti artigiani di matrice medievale. All’interno di tale affresco, ciascuna opera di Filippo Brunelleschi è legata ad un intento dimostrativo, ad una discussione, ad una polemica.

Il Crocefisso ligneo, stando al Vasari, fu fatto per gara o per scommessa, con lo scopo di castigare l’eccesso realistico del Cristo di Donatello. Il sacrificio di Isacco, fu composto in occasione del concorso delle porte del Battistero, bandito nel 1402, nel quale Filippo fu giudicato ex aequo con Lorenzo Ghiberti. Ma non accettò di dividere l’incarico; e il rifiuto del compromesso dimostra come fosse ormai già conscio della novità assoluta delle sue forme e della loro inconciliabilità con la tradizione: infine non era più una questione di stile, ma di visione. (7-8)

Argan, sviluppa l’intero saggio non solo sulla sottile dicotomia non oppositiva tra prima e dopo, ma anche sulla sfumatura interpretativa del mondo classico, che senza alcun dubbio è punto focale dell’Umanesimo fiorentino, assunto da sempre come luogo/cuore di un intero “mondo occidentale” (già a partire da chi dovette ereditare tale tradizione e che non poté fare altro che raccontarla o ancora meglio teorizzarla, come Leon Battista Alberti e i tanti che gli seguirono). Argan ci racconta tutti i passaggi che portarono all’affermazione di quel particolare pathos lanciato da Filippo Brunelleschi, diverso dal realismo crudo di Donatello, opposto al classicismo poetico del Ghiberti.
L’affermazione del gusto prospettico avviene attraverso vere e proprie sfide, principalmente tra Ghiberti e Brunelleschi rivali nei due concorsi indetti a Firenze: il concorso della Porta del Battistero e il concorso per la costruzione della Cupola di Santa Maria del Fiore. E se Ghiberti realizzò quella che Michelangelo definì la “Porta del Paradiso”, toccò invece a Brunelleschi realizzare la Cupola della Basilica di Santa Maria del Fiore, epicentro non solo delle forze costruttive della stessa chiesa, ma dell’intera Firenze, e ancora della Toscana e perché no dell’Italia, e per eco dell’Europa e dell’immaginario esportato ed esportabile.
In entrambi i casi, il disagio di dover giudicare due diverse visioni del mondo classico, quella soffusa ed elegante del Ghiberti, risoluta e rigidamente prospettica del Brunelleschi, porta la giuria a nominare ex aequo i due artisti in entrambi i concorsi. Come afferma Argan, «già i contemporanei, del resto, s’avvidero che, nel confronto di quei due saggi, non era questione di correttezza o dignità formale, ma del modo di impostare una azione. Due concezioni così diverse non potevano essere paragonate, e rinunciarono a scegliere; ma poiché quelle due concezioni erano inconciliabili, Filippo rinunciò a collaborare.» (21) In contrapposizione al Ghiberti, lo stile di Brunelleschi viene così spiegato:

Al nuovo valore del soggetto corrisponde, necessariamente, un novo valore dell’oggetto. La plastica, che definisce l’oggetto, è aspra, dura, coincisa. Non più ritmi continui e fluenti di linee e di sfumature, ma un taglio crudo dei piani, un netto contrapporsi di spioventi di luce e ombra: ed è lo scatto dei gesti, cioè l’interna strutta della “storia” che decide ciò ch’è lì ce e ciò ch’è ombra. (21)

La porta del Battistero pone una sfida sul piano del gusto da cui Brunelleschi si autoelimina, ma il capolavoro assoluto, la Cupola di Santa Maria del Fiore, presenta una sfida anche e soprattutto sul piano della tecnica, nessuna migliore occasione per dimostrare che con i procedimenti tradizionali non era possibile affrontare tale impresa costruttiva e solo lui avrebbe potuto trovare una soluzione.3
Brunelleschi realizza il suo plastico per la cupola con gli artisti più rivoluzionari dell’epoca da lui guidati: Donatello e Nanni di Banco, ed è forte delle conoscenze costruttive e classiche acquisite durante i viaggi a Roma. Ma il rivale viene battuto solo ed esclusivamente sul piano dell’astuzia: Brunelleschi si finge malato e lascia solo il Ghiberti in un momento cruciale per la costruzione delle centine, che ovviamente il Ghiberti sbaglia con conseguente perdita di tempo e di denaro. Brunelleschi è dichiarato in maniera definita “inventore e governatore della cupola maggiore”. Da lì a poco Masaccio sarebbe rimasto incantato dagli spazi scanditi dalla prospettiva brunelleschiana e avrebbe adottato questa tecnica nella sua pittura, Beato Angelico l’avrebbe usata per la sua missione divina, Donatello l’avrebbe “schiacciata” alle proprie esigenze e così tanti altri contribuirono alla nascita del Rinascimento Italiano e del suo conseguente immaginario in relazione alla tradizione Classica e alla grandiosità dell’epoca imperiale.

Affrontare tali questioni ci pone su un piano del tutto “italiano”, fortemente legato a dinamiche interne di gusto e di stile. Oggi come allora i cantieri mostrano tempi lunghi, l’apertura al nuovo gusto è un processo lento e articolato. L’interesse di Giulio Carlo Argan, manifesto nei due saggi, è rivolto all’affermazione di un’architettura di stampo razionalista che risponde talvolta al suo essere storico dell’arte, altre volte all’intellettuale che si interroga sulla cultura a lui contemporanea. Argan distingue tra estrema sinistra ed estrema destra uno stesso atteggiamento strumentale della cultura: mirano rispettivamente al potere accampando un programma internazionalistico e un programma nazionalistico ad oltranza. Nel 1951, anno in cui scrive il saggio “Walter Gropius e la Bauhaus” è palese l’esigenza di Argan di uscire dalle logiche “provinciali” italiane, in particolare dal provincialismo imperiale del Regime Fascista, per affacciarsi nel resto d’Europa: «l’esigenza è un modello di portata più vasta, internazionale ed universale cui la cultura architettonica italiana dovrebbe guardare.» (XXII) Il modello cui fa riferimento è l’architettura organica di Wright cui dedica diversi saggi, quella modulare di Le Courbusier e infine quella razionalista e pedagogica di Walter Gropius, presa in esame all’indomani del crollo del regime fascista e della liberazione dall’occupazione nazista. L’interesse di Gropius da parte di Argan risale, infatti, agli anni della guerra:

L’ho pensato, appuntato, durante l’occupazione tedesca, con le paure, le ansie che erano molto gravi […] e poi l’ho pensato dopo la guerra, in quel momento di ansia di ricostruzione. […] L’idea di scrivere un libro su Gropius fu il fascismo a suggerirmela. Il libro era legato all’esigenza di uscire dal provincialismo imperiale del fascismo affacciandosi alla cultura europea. (XV)

L’ambiente culturale nel quale si era formato Argan era quello del liberalismo di Piero Gobetti, dell’estetica idealistica di Lionello Venturi, suo maestro e grande punto di riferimento costretto ad andare in esilio a Parigi per non aver presentato fedeltà al fascismo. La guerra e la presenza dei regimi totalitari sono un punto fisso attorno a cui tutto può ruotare o allontanarsi: «Ed è forse proprio l’assenza di ogni conflitto manifesto – e conseguentemente l’assopirsi delle coscienze, il loro ergersi a paladine estreme dell’identità individuale – a costruire il problema, il dramma collettivo odierno; la condizione dalla quale alienarsi, il punto di crisi a partire dal quale cercare di “ricostruire”». (25) Lo stile espresso dalla scuola del Bauhaus è una sintesi fra tradizione e innovazione, tra praticità ed estetica ed è in grado di raccogliere tutti i protagonisti del mondo della creatività a Gropius contemporanei (da Paul Klee a Vasilij Kandinskij, da Oskar Schlemmer a Mies van der Rohe). Tutti i suoi progetti, anche e soprattutto quelli riferibili alla produzione di oggetti di consumo su larga scala, hanno un implicito valore di ricostruzione sociale.

La Bauhaus di Gropius soprattutto nel suo disegno iniziale, si può considerare una conseguenza diretta e un logico sviluppo della teoria dell’artediu Fiedler, la quale infatti, non più ponendosi come bello, ma come teorica della visione, e della particolare visione che si consegue professando l’arte, aveva il suo sbocco naturale in una pedagogia o didattica artistica. (33)

Ma il disagio che vive Gropius va ben oltre i risultati ottenuti dalla scuola di architettura, arte e design. Il problema è il suo essere, prima di ogni cosa, un uomo del dopoguerra. Il contesto in cui agisce è imprescindibile dalla Repubblica di Weimar e della “fragile” democrazia tedesca. «Tutti gli sforzi di Gropius per tenere la Bauhaus fuori d’ogni ideologia e di ogni contrasto politico non riescono a scongiurare l’ostilità accanita di quella stessa borghesia cui il suo programma era fiduciosamente rivolto […]. Contro la Bauhaus si coalizzano:

  • l’ambiente artistico ufficiale, che considerava l’arte un’iniziazione e il suo esercizio un privilegio di casta,
  • l’artigianato tradizionalistico e conservatore,
  • l’alta burocrazia,
  • le destre nazionalistiche appoggiate al grande capitalismo.

Sostengono la Bauhaus:

  • gli uomini più tecnicamente preparati del mondo industriale,
  • gli intellettuali.» (46)

Queste grandi ostilità obbligano la Bauhaus a trasferirsi in un ambiente meno retrivo, a Dessau, dove sorgerà sui famosi disegni di Gropius la nuova sede. «Ma tre anni più tardi Gropius deve comunque la sciare la direzione della scuola che viene affidata a Hannes Mayer e poi a Mies van der Rohe. I nemici della Bauhaus trovano nei nazionalisti i loro naturali alleati, e quando Hitler s’impadronisce del potere, la lotta è presto decisa. La Bauhaus è ufficialmente soppressa nell’aprile del 33 e la sua sede affidata a una qualsiasi organizzazione giovanile nazista.» (76)
Gropius si trasferisce a Berlino e si dedica alla libera professione di architetto e specificatamente di urbanista, attività volta a migliorare la qualità di vita delle comunità. Se per anni, con la scuola del Bauhaus aveva perseguito il sogno di una creatività democratica, che mediasse fra tradizione e innovazione, possibilista per il più grande numero di persone, con l’attività di urbanistica il sogno è quasi raggiunto. Scende in campo con un razionalismo fiero, non standardizzato come quello di Le Courbusier, ma modulare, perché il modulo permette la democrazia. I progetti di quelle che Argan chiama case collettive per i lavoratori delle fabbriche (oggi comunemente dette case popolari) raggiungono l’apice del suo impegno democratico, rappresentano la nobile volontà di preservare il valore dell’individuo in una strutta collettiva. Attraverso Gropius, con una sola frase, Giulio Carlo Argan, spiega una delle grandi questioni che riguardano l’urbanistica contemporanea: «le nefaste conseguenze igieniche e sociali dell’abitazione collettiva non dipendono se non dal fatto che un’insufficiente struttura politica e amministrativa abbandona i quartieri operai nelle mani della speculazione.» (132)

 

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Immagine in homepage
 iscrizione presente nella porta laterale che conduce alla Sala degli Specchi di Villa Palagonia (Bagheria – PA),
costruita nel 1715 per conto di Ferdinando Francesco I Gravina Cruyllas, principe di Palagonia, ad opera dell’architetto Tommaso Maria Napoli.

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1Scuola di Raffaello Sanzio, Battaglia di Costantino contro Massenzio, affresco, (1520-1524), Stanze di Raffaello, Musei Vaticani.
2Arco di Costantino, (315 d.C.), Roma.
3Le dimensioni della calotta, infatti, erano stabilite già dal 1360, ovvero da quando l’architetto Francesco Talenti aveva a sua volta modificato le dimensioni della pianta arnolfiana. Ma negli anni in cui opera Brunelleschi, non vi erano più a Firenze maestranze in grado di costruire centine così grandi.

 

Bibliografia
Aa.Vv., L’Arte Medievale in Italia, Sansoni Editore, Firenze, 1996.
Aa. Vv., Roma, Gruppo editoriale L’Espresso & Touring Editore, Milano, 2004.
Argan G.C, (a cura di), Brunelleschi, Mondadori, Verona, 1955.
Argan G. C., Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino, 2010, [ed. or. 1951].
Accasto G., V. Fraticelli. R. Nicolini, L’architettura di Roma capitale: 1870 – 1970, Edizione Golem, Roma, 1971.
Bandinelli R. B., Roma, l’arte romana nel centro del potere, Rizzoli, Milano, 2002.
Burk E., Inchiesta sul bello e il sublime, Aestetica, Palermo, 2002.
Cortese W., I beni culturali e ambientali, Cedam, Padova, 2002.
La Regina A., Fuksas M., Mandrelli D. (a cura di), Forma. La città eterna e il suo passato, Mondadori Electa, Milano, 2004.
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Speroni F., La Rovina in Scena, Meltemi, Roma, 2002.
Warburg A., L’ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del primo Rinascimento in La rinascita del paganesimo antico: contributi alla storia della cultura, La Nuova Italia, Firenze, 1966.