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Appunti per un’erranza infantile. Cinque discorsi intorno al progetto per l’infanzia Borgo Indaco
a cura di Valentina Pagliarani, Leslie Silvani, Fabiola Tinessa, Adele Vuoto e i bambini di Borgo Indaco

Il seguente contributo nasce a conclusione della IV° edizione di Borgo Indaco – Giardino segreto di cultura infantile curato da Katrièm Associazione nella città di Cesena. Il progetto si traduce in una Scuola estiva di arti contemporanee rivolta a bambini dai 3 ai 12 anni e in un Microfestival di cultura infantile. I discorsi si presentano come una sorta di conversazione a “diverse” voci (e forse anche qualcuna di più!) nel tentativo di lanciare qualche suggestione sul gioco immaginifico intercorso nella relazione tra bambini, adulti e arte contemporanea.

Occhio #01#, Luglio 2014. Photo: i bambini di Borgo Indaco

DISCORSO UNO

“Dal Non Museo ad un Atlante per lo sguardo. Ma se è un museo che non è un museo allora che cos’è?”

di Valentina Pagliarani

30 Giugno 2014 ore 8.00 via Mami, 411 Cesena (Italia)

Un grande cancello con incise le lettere “l” e “m”, un viale, una piccola chiesetta, tanti alberi e la loro ombra, due giardini, due case (una chiusa ed una aperta), una siepe con passaggio segreto da non scoprire. Il cancello di Borgo Indaco si apre e animatamente varcano la soglia un gruppo di circa settanta bambini. Hanno dai tre ai dodici anni d’età e i loro occhi iniziano a scrutare con attenzione noi adulti, lo spazio e tutto ciò che è intorno a loro. Le nostre parole iniziano a scorrere e il loro ascolto si cala immediato in una preziosa attenzione di cui solo i bambini solo capaci. Prima ancora che ce ne accorgessimo il gioco era già iniziato con pronta e seria adesione da parte di ognuno di loro. In pochi minuti noi eravamo fate a tutti gli effetti e loro piccoli antropologi-esploratori di Borgo Indaco, luogo e non luogo nel quale l’immaginazione così come l’arte costituiscono grandi e potenti strumenti consegnati nelle loro mani. Il confine tra reale e immaginario è già compromesso ed è chiaro fin da subito che la prima regola del nostro gioco è quella di abbandonarci all’inatteso. Una pergamena racconta loro l’inizio del percorso: “Per trovare l’ordine delle cose bisogna costruire il Non Museo. E’ un luogo che c’è ma non c’è, che si vede ma non si vede, che si tocca ma non si tocca. Solo i bambini attraverso il loro sguardo possono fondarne uno”. Ecco la nostra stazione di partenza. Era chiaro che avremmo messo a disposizione dei bambini strumenti, linguaggi e suggestioni poetiche, ma il viaggio sarebbe stato guidato interamente da loro. Noi fate, dentro alle nostre vesti di osservatrici indaco, saremmo state pronte ad essere guidate, travolte, accompagnate, disorientate verso quegli inattesi e surreali spazi che solo i bambini, così come gli artisti, sanno raggiungere.

14 Marzo 2014 ore 16.30 via Aldini, 50 Cesena (Italia)

Una porta, tre rampe di scale, un corridoio, tanti vecchi muri, una stanza di quattro metri quadrati, una porta con maniglia rotta, una finestra aperta, una corte dalla finestra, un tavolo, quattro sedie, fogli. Ufficio di Associazione Katrièm, consueto incontro di programmazione della scuola di Borgo Indaco, apro il mio taccuino e inizio a leggere una serie di vecchi appunti che parlano di archivio, museo, atlante, sguardo, costellazione, non museo. Le varie declinazioni di significato contenute in queste parole ruotavano nella mia testa già da qualche tempo e sapevo che in qualche modo, prima o poi, avrebbero incontrato i pensieri dei bambini. Costellazione è stata immediatamente scelta come fulcro centrale della discussione, partendo dal significato che Walter Benjamin1 attribuiva ad essa nel parlare di una sorta di rete nella quale un elemento incontra un altro elemento e lo illumina di un nuovo senso. Ho sempre pensato che un bambino è già di per sé una magnifica e segreta costellazione, ogni cosa che incontra è da lui cosparsa di un nuovo significato e il suo sguardo è un potente vettore di accezione. Da lì nasce l’idea di giocare con i bambini sul significato culturale dei luoghi-contenitori del museo, dell’archivio e dell’atlante e delle corrispettive narrazioni che in differenti modi scelgono di attuare. All’improvviso fu chiaro: “Fondiamo con i bambini uno spazio immaginario chiamato Non Museo, una sorta di luogo che prenderà forma con la mostra delle opere realizzate dai bambini durante i laboratori con gli artisti,  una grande opera collettiva portavoce del loro sguardo sul mondo”. Da qui è stato imprescindibile che il titolo della prima mostra sarebbe stato “Per un atlante dello sguardo”. Seguendo tracce del pensiero dell’artista Gerhard Richter l’idea era quella di offrire ai bambini la possibilità di costruire un grande Atlas nel quale le immagini, così come le opere materiche avrebbero raccontato storie del loro piccolo sguardo in volo sul mondo, smontando il concetto stesso di atlante, così come quello di archivio e di museo. L’immaginazione, nel suo essere conoscenza trasversale capace di un’azione costante di “montaggio” e trovando connessioni al di là della somiglianza, sarebbe stata il canale privilegiato, affinché i bambini potessero andare alla ricerca di relazioni segrete tra le cose. Osservare, estrarre, trasferire, tagliare, montare, smontare, collegare… Il nostro sguardo si posa sulle cose e ne proietta un’immagine unica e diversa da tutte le altre. Questa era la cosa importante che doveva passare ai bambini.

3 Agosto 2014 ore 20.00 via Mami, 411 Cesena (Italia)

Centoventicinque ore di laboratorio, millenovecento minuti di pranzi e pause sotto le nuvole, settantacinque bambini (o così ufficialmente dichiarati!), quindici artisti, tredici volontari, non quantificabili caffè, quindici ore di allestimento, circa cento visitatori finali al Non Museo. All’ingresso sono gli stessi bambini ad accogliere i visitatori giunti per l’inaugurazione. Ognuno di loro ha un ruolo prestabilito: ci sono i responsabili della biglietteria, le guide museali, gli addetti alla custodia delle opere. Ai visitatori viene rilasciato un biglietto per l’ingresso e a piccoli gruppi iniziano le visite guidate. Nell’osservarli capiamo che sanno già da soli come fare e sono pienamente autonomi nella cura della loro mostra. Le guide spiegano perfettamente il processo di creazione delle opere, smontando significati, costruendone di nuovi in un continuo gioco di negoziazione, montaggio e de-costruzione dei significati.

E così si dipana la mostra del Non Museo e i visitatori si ritrovano di fronte alle opere nate dal loro sguardo: entrando si ritrovano catapultati nell’Atlante dei corpi tracciato dalle sagome dei bambini sovrapposte e moltiplicate, per giungere davanti all’Atlas #01# nato seguendo le suggestioni poetiche di Richter. Viaggiando nell’allestimento gli occhi si posano successivamente sulle piccolissime scatole di fiammiferi con dentro Storie di fantasmi per adulti create giocando con Aby Warbug; poi l’invito sembra quello di perdersi tra Cartoline a domicilio per sogni atopici, una serie di Mappe Atopiche della città di Cesena, immagini di errori fotografici e giochi con la luce, autoritratti, disegni, frammenti di oggetti e tracce su tavolette di argilla fino a ritrovarsi in un percorso di piccoli musei mobili:  dal museo sentimentale al museo degli oggetti da niente, dal museo dei pensieri al museo ri-vestito fino ad un museo dei non luoghi. Da queste ad altre opere in mostra i settantacinque piccoli sguardi dei bambini di Borgo Indaco ci hanno riconfermato l’importanza dell’azione creativa, del pensiero, dell’istinto e della purezza innata dello sguardo, della relazione e della negoziazione continua di significati come pratica ludica fondamentale nell’arte così come nella vita.

4 Settembre 2014 ore 2.00 via Don Minzoni, 481 Cesena (Italia)

Quattro anni per venticinque giorni l’anno nei panni di una fata, trent’anni nei panni di una bambina, duecentosessantamila e ottocento ore con me stessa. Non si è mai allontanata da me la voglia di giocare e immaginare e l’arte mi ha sostenuta nel rendere tutto ciò possibile. Sostengo da tempo il pensiero che un’artista e un bambino fanno ogni giorno lo stesso lavoro, agendo in una costante dimensione di rovesciamento della realtà attraverso il loro pensiero laterale. L’arte può rappresentare un valore nella crescita di un individuo per conservare quello spirito di scoperta e quello sguardo volano con il quale nasciamo e che poi crescendo viene velato. Il perno della nostra cultura è nell’infanzia, li è radicata la nostra responsabilità collettiva, nel riflettere su cosa poniamo nelle mani dei bambini, tra i loro pensieri, davanti ai loro occhi, alle possibilità che offriamo loro per abituarsi ad una capacità attiva per vivere la propria vita pienamente e nella massima libertà d’espressione di sé e dei propri pensieri.


Occhio #02#, Luglio 2014. Photo: i bambini di Borgo Indaco

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DISCORSO DUE

“Lo spazio dell’immaginazione: un luogo condiviso”

di Fabiola Tinessa

I bambini! Credete siano in grado di comprendere le logiche degli artisti contemporanei? Credete sappiano coglierne le poetiche e da lì affacciarsi sul mondo con un nuovo sguardo? Sì! la risposta è Sì! ma è necessario a questo punto introdurre alcuni concetti psico-pedagogici che hanno guidato la nostra riflessione. La parola chiave è veicolo! Ci siamo interrogate su quale potesse essere il veicolo più adatto che come un Cavallo di Troia ci avrebbe permesso di entrare nel mondo dei bambini. Abbiamo dovuto necessariamente fare lo sforzo di parlare la loro lingua. Come antropologi e osservatori partecipanti ci siamo calate nella cultura infantile, per naturalizzare la nostra presenza, altrimenti il gioco non avrebbe funzionato. E allora il primo esercizio surrealista è diventato quello di trasformare noi stesse – adulti con un’idea pedagogica ben definita – in creature fiabesche che sanno giocare al gioco dell’immaginario. Sì, il gioco è lo spazio che ha consentito tutto ciò. Il processo pedagogico può aver luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco (quella degli adulti e quella dei bambini). Il processo educativo ha a che fare con due o più persone che giocano insieme. Molti autori sostengono questa affermazione, Milner mette in rapporto il gioco dei bambini con la concentrazione negli adulti: “Incominciai ad accorgermi che questo uso di me era una fase essenziale ricorrente di un rapporto creativo con il mondo”2.

Il gioco fin dalla più tenera età è uno spazio fondamentale di crescita e sperimentazione e conoscenza del mondo per il bambino. Il contenuto non importa. Ciò che importa è lo stato di quasi isolamento, simile alla concentrazione degli artisti durante il processo creativo. Secondo Winnicott3 il gioco deve avere un luogo e un tempo. Tale luogo non è all’interno, ma non è neppure al di fuori. Mentre la realtà psichica interna ha una sorta di ubicazione nella mente, nella pancia o nella testa, o in qualche luogo entro i confini della personalità individuale, e mentre ciò che è chiamato realtà esterna è ubicato fuori da questi confini, il giocare e l’esperienza culturale possono essere localizzati se si usa il concetto dello spazio potenziale dell’area di gioco. Il luogo del gioco è dunque uno spazio potenziale in contrasto con il mondo interno e con la realtà effettiva esterna. È un non luogo all’interno del quale accadono cose straordinarie: la scoperta di sé stessi, degli altri e del mondo e di sé stessi in relazione agli altri e al mondo. Il bambino infatti raccoglie oggetti o fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale.  Mentre gioca il bambino o l’adulto è libero di essere creativo. Vi è una linea diretta di sviluppo dal gioco al gioco condiviso e da questo alle esperienze culturali.

Il gioco è universale. Porta alle relazioni di gruppo, facilita la crescita ed è al servizio della comunicazione con sé stessi e con gli altri. Si gioca insieme, in un rapporto dove le regole e i confini sono stabilite dai partecipanti. In quest’area di gioco intermedia si origina l’idea del magico. L’area di gioco è uno spazio potenziale che ci permette di avvicinarci ai bambini e veicolare contenuti complessi, altrimenti difficili da trasmettere. La surreale trasformazione di una piccola tenuta in Borgo Indaco e di un gruppo di educatori, curatori e artisti in una schiera di fate e folletti ha l’obiettivo di rendere l’esperienza della scuola fruibile ai bambini. Lo sforzo degli adulti deve essere quello di calibrare i propri interventi adeguandoli a chi ha di fronte per non correre il rischio di incagliarsi nei vetusti meccanismi della didattica dove i bambini  – vuoti vasi da riempire – debbano rimanere attori passivi di un gioco deciso senza di loro. A Borgo Indaco si gioca insieme. La struttura viene definita dalla partecipazione dei bambini, di quei bambini. È un processo educativo co-costruito dove il bambino non è al centro dell’osservazione e della pratica dell’adulto (come un’opera d’arte in un museo) ma è attore attivo di un’artistica e contemporanea visione della pratica educativa.

Occhio #03#, Luglio 2014. Photo: i bambini di Borgo Indaco

DISCORSO TRE

Sai chi è Luca Vitone?”

di Leslie Silvani

Entro nel laboratorio di didattica dell’arte. Ci sono già i bambini seduti attorno a due tavoli. Si tratta di quindici bambini di tre anni, quattro anni al massimo. Oggi giocano a didattica dell’arte ma mentre sistemo i materiali litigano sul loro posto, su chi deve tenere in mano quel colore, litigano per un peluche, urlano per farsi sentire più forte del vicino, dicono anche parolacce per esser sicuri che io mi sia accorta di loro.
Li catturo immediatamente, perché faccio una magia: “Garage, chiuditi!” e quello si chiude. “Garage, fermati!” –grido- e quello si ferma. “Chiuditi ma non troppo!” e quello si chiude, ma non troppo. I bambini sono rapiti, silenziosi, a bocca aperta. Guardano me per non guardare il garage, tanto è forte l’idea che si chiuda per ordine mio. Non chiedono nemmeno come ho fatto: lo sanno che sono una fata e lo sanno che so fare le magie. Non si discute con una fata.

Giro l’angolo per prendere una mappa e ricominciano a schiamazzare (come polli, si, come polli. Li adoro, li amo, sono le creature più interessanti dell’universo i bambini, ma a volte sono come un branco di polli inferociti).
Li guardo, mi sistemo i capelli e con la voce più bella che ho richiamo il silenzio che – altra magia – arriva subito. “Devo presentarvi un mio amico, siate carini, siate gentili, accoglietelo con garbo perché è un po’ timido e viene da lontano, ha fatto uno dei suoi lunghi viaggi. Luca? Luca entra pure, non stare sulla porta!”
Apro la porta e chiamo tra noi Luca Vitone. E’ alto, magro, giovane, moro e con un incedere un po’  goffo. Così descrivo loro Luca Vitone, e si, lo vedo solo io ma in realtà anche i bambini perché si fidano di me, sanno che se io lo vedo, se la mia immaginazione lo concepisce, allora è vero. Ridono, sorridono ma ascoltano. Guardano Luca Vitone che è nella stanza con noi e, in una surreale e quanto mai improbabile mia intervista, ci parla del suo lavoro, delle sue carte atopiche, dei suoi sogni topici e di quel suo modo strano di modificare la mappe delle città in base ai sentimenti.

Oggi questi bambini di tre, quattro anni hanno lavorato sulla mappa della città di Cesena, cancellando la geografia reale del luogo e ri-definendola alimentandosi di fantasia, desiderio, tensione all’impossibile che diventa, con noi, probabile. Ipotizzano la via più famosa del centro come sede di una montagna di astronauti. Localizzano una fabbrica del miele al posto del Ponte Vecchio e sostituiscono la Stazione di Cesena con un parco di conigli. C’è anche un castello delle fate in corso Sozzi.
Abbiamo giocato con il nome di un artista e con le sue suggestioni, in un continuo negoziare di stati d’animo, in una fugace attenzione bambina catalizzata però dalle giuste parole, dalle giuste espressioni e da una folle drammatizzazione che è, con loro, la chiave che apre la possibilità di ribaltare un mondo per crearne di nuovi, imprecisi, buffi, visionari.
A modo nostro. In maniera apparentemente maldestra ma assolutamente pensata per stimolare la curiosità di questa fascia d’età, così ricca di potenzialità, libera da contenitori culturali ma ancora concentrata sulla magia del trovare un posto fisico nel mondo.

Come insegnante di scuola dell’Infanzia, sento mio il dovere di predisporre per i più piccoli esperienze di tipo estetico proponendo loro non di creare un’opera d’arte, invitandoli non ad esercizi di stile ma offrendogli un modo di “vedere il mondo” che ricerca nuovi significati nel solito quotidiano. Nostro dovere è promuovere un utilizzo amplificato dei sensi, smisurato anche, smodato perché poi ci penserà la vita adulta a chiedere un utilizzo più superficiale di questo potenziale bellissimo che abbiamo. Ma sono convinta che, se proponiamo ai bambini una palestra estetica fin da piccoli, potranno arrivare a guardare al mondo con occhi allenati a scrutare le infinite connessioni che si nascondono sotto la superficie delle cose.

Occhio #04#, Luglio 2014. Photo: i bambini di Borgo Indaco

.DISCORSO QUATTRO

“Il gioco dell’arte”

di Adele Vuoto

André Breton mostrava una totale fiducia nel meraviglioso, nel sogno, negli stati allucinatori e nella follia, ossia in tutto ciò che sfuggiva alle logiche razionalistiche e positiviste. Condannando il talento artistico, inteso come pura abilità tecnica, i surrealisti svelavano le potenzialità della forza creativa e dell’inconscio. “Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualunque controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”4, con queste parole l’autore del manifesto surrealista ne annunciava le linee guida. Dalla scrittura automatica al cadavre exquis il gioco e l’improvvisazione venivano utilizzati come strumenti per accedere ad una dimensione ‘surreale’, cioé una dimensione che andasse al di là della realtà. Durante le loro sedute mediatiche i surrealisti producevano versi e immagini nati da libere associazioni di idee. Questi si avvicendavano senza la consequenzialità del discorso logico. Si trattava di un gioco collettivo dagli esiti inattesi che costituiva uno strumento di autoanalisi e di superamento dell’io. Passando dal gioco e dalla casualità si giungeva ad una dimensione onirica, l’unica e autentica condizione di libertà in cui l’essere umano poteva esprimersi senza inibizioni.

L’esperienza surrealista mi riconduce a quella vissuta a Borgo Indaco, uno spazio dedicato all’infanzia in cui si disseminano visioni inedite e si rivendica il diritto dell’infanzia di creare nuove cosmogonie con e attraverso l’arte. Sfruttando le qualità immaginifiche dei bambini e dell’arte, gli avventori di Borgo Indaco approdano ad uno spazio sospeso, ibrido in cui si sovrappongono il mondo che abitano e quello che creano. Il tutto si traduce in un’opera collettiva e partecipata, dagli esiti indefiniti e costituita da disegni, illustrazioni, gesti, taccuini, fotografie, ritratti, mappe del sé e del mondo.
Le esplorazioni di Borgo Indaco tengono conto delle variazioni psicologiche ed intuitive dei singoli: da esse derivano un atlante di immagini e di azioni che non annullano l’individualità ma che creano piuttosto una visione singolare ed unica delle cose e del mondo. Allo sguardo meravigliato ed incontaminato si palesano i dati della realtà. L’esplorazione temporanea che l’associazione propone é un nomadismo mentale che porta alla creazione di un nuovo modo di vivere. In questa erranza poetica sui luoghi della quotidianità e del sé, lo sguardo rivela un universo assolutamente frammentario in cui le cose perdono la loro carica oggettiva e distaccata. Lo spazio circostante si svela in un sistema di relazioni che sarà alla  base di nuove prospettive. L’arte, in questo caso, dà la possibilità di sperimentare e di sperimentarsi liberamente, di istituire connessioni inedite che procedono per analogie, somiglianze o contrapposizioni. Essa permette così di creare l’assente, di conservare il desiderio e la curiosità per il mondo e di immaginare ciò che non si é ancora compiuto.

Gli abitanti di Borgo Indaco, alla stregua di un moderno antropologo, intraprendono un viaggio attraverso la creatività, in cui il mondo circostante viene esperito e sperimentato. “Guarda il mondo come se fosse la prima volta!” Una frase che viene ripetuta spesso e nella quale quel bambino, che un giorno si troverà ad essere adulto, cercherà rifugio. A dispetto di tutti quegli stereotipi travestiti di buon senso che rischiano di annichilire la capacità di riscrivere il proprio universo in modo creativo. La tendenza degli adulti é infatti quella di intervenire nel gioco infantile allo scopo di “educare”. Questa presunzione educativa, nell’impartire regole e valori rigidi, ha l’effetto di inibire l’immaginazione e l’individualità del bambino, desideroso del consenso dell’adulto. Il suo sguardo meravigliato rischia allora la paralisi a discapito di visioni più ampie. Seppur in un tempo d’azione limitato ad un mese e poco più, questo progetto tenta di stimolare la capacità visionaria che, sulla scorta del fare artistico, scruta il mondo da diverse angolazioni e che viene riassunta  in una visione allo stesso tempo composita e parziale, la stessa che anima questo contributo scritto. Queste righe sono la prova tangibile di come lo sguardo multiplo sia una ricchezza e una risorsa sia per l’adulto che per il bambino.

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DISCORSO CINQUE

Verso una definizione del Non Museo

Estratto da dialoghi intercorsi tra alcuni dei bambini di Borgo Indaco durante l’edizione di Luglio 2014. Durante queste sessioni di pura conversazione auto disciplinata e auto organizzata, i bambini iniziavano a parlare tra di loro partendo da alcune parole chiave che noi davamo loro. Il seguente discorso parte dalle parole: immaginazione, punto di vista, Museo e Non Museo, una storia di fantasmi per adulti.

1 W. Benjamin, Uber den Begriff der Gerschicht, in Walter Benjaimn gesammelte Schriften, (1950); trad. Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 87
2 M. Milner,  Aspects of Symbolism in Comprehension of the Not-Self in Journal of Psychoanalysis, London, 1952, p. 33
3 D. W. Winnicott, Gioco e Realtà, Armando Editore, Roma 2006 p. 65-94
4 L. Binni, Potere Surrealista, Meltemi, Roma 2001, p.8. Ivi, p.80

 

 

Valentina Pagliarani nasce e vive a Cesena. Danzatrice, educatrice e curatrice di progetti intorno all’arte contemporanea. Si laurea come educatore sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna e frequenta successivamente il Master in curatore museale presso IED Roma. Partendo dalla danza come fulcro centrale, sviluppa un trasversale interesse verso la curatela di progetti intorno alle poetiche dell’arte contemporanea. E’ fondatrice di Katrièm Associazione, per la quale è attualmente direttrice artistica. Sceglie di approfondire una ricerca intorno alla didattica dell’arte contemporanea per l’infanzia, tema al quale si sta dedicando attraverso la progettualità di Katrièm Associazione. Lavora da oltre dieci anni nella didattica della danza contemporanea.

Leslie Silvani: il filo conduttore delle sue esperienze è l’infanzia. Laureata in Scienze filosofiche, è insegnante in una scuola dell’infanzia. Affianca una formazione nel teatro e dal 2009 al 2011 lavora, come attrice e performer, per lo spettacolo di strada Carretti Musicali, prodotto da Aidoru Associazione in collaborazione con Teatro Valdoca, realizzato anche per il teatro-ragazzi. Cura insieme a Roberta Magnani, di Aidoru Associazione, il progetto Fairy Tales Wall, azione artistica collettiva che ha lo scopo di raccogliere le fiabe di diverse culture e diffonderle con letture pubbliche. Dal 2012 collabora con Katrièm Associazione, per la quale conduce letture per bambini , percorsi animati e laboratori ed è responsabile della classe di bambini dai 3 ai 5 anni nel progetto “Borgo Indaco – Scuola estiva di + arti per bambini”.

Fabiola Tinessa, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta Familiare in formazione, lavora come coordinatrice di un asilo nido a Cesena. Si occupa di progetti legati al sociale e alla didattica con i bambini. È interessata all’arte, in particolare quella contemporanea e alle sue connessioni con il mondo dell’infanzia e con il benessere dell’individuo. E’ co-fondatrice nel 2009 di Katriém Associazione a cui si dedica con impegno e passione e per la quale è co-direttrice insieme a Valentina Paglairani del progetto “Borgo Indaco – scuola di + arti per bambini”.

Adele Vuoto, Laureata in Scienze dei Beni culturali presso l’Università di Pisa nel 2007, specializzanda in Storia dell’arte presso la medesima università. Dal 2011 al 2012 ha collaborato con il Centro d’arte Contemporanea Le Consortium e il Museo di Belle arti di Digione, dove ha ricoperto funzioni diverse: assistente ufficio stampa, assistente Junior curator, catalogazione e mediazione della donazione Le Consortium, traduttrice e mediatrice culturale. L’esperienza francese ha consolidato l’interesse per l’arte pubblica, con una particolare attenzione alle pratiche partecipative.

Katrièm Associazione, nasce nel 2009 a Cesena. Il lavoro parte dall’impegno di un gruppo di giovani curatori, artisti, educatori ed operatori culturali che tracciano un progetto orientato alla diffusione, conoscenza e fruizione pubblica dell’arte contemporanea. In particolare Katrièm si dedica ad una ricerca che ha come fulcro centrale la cultura infantile e l’incontro tra i bambini e l’arte contemporanea. Promuove laboratori, eventi, progetti didattici per le scuole, corsi di formazione e lavori site specific con artisti. Dal 2010 cura il progetto di “Borgo Indaco. scuola di + arti per bambini” e “BIM! Microfestival di cultura infantile”. [www.katriem.it]